SPIRALE CICLICA

Si corre soli. Si corre come cani senza guinzaglio in strade di paesini senza padroni. Eroi per giorni che se ne sono andati come faremo noi con le museruole sciolte, ma senza accorgerci. Ci saremmo portati bottiglie di vino rosso e penne scariche se avessimo saputo. Un cast di attori più che di eroi.

martedì 22 dicembre 2009

Paco.

Paco è nichilista, esistenzialista, narcisista egocentrico. Dà molto valore a dettagli e sfumature minimali.
E' protagonista, ma sta in disparte.
Ha potenziale, stile, fantasia, talento, creatività, curiosità, coraggio (di non averne), follia e coraggio di viverla, genialità. Originale e bbbanale.
Trasuda vita, magari non in tutti gli aspetti, ma estremamente in quelli in cui è vitale.

Parla in codice, ma è la persona che si esprime meglio che conosci.
La lingua è un codice, la scrittura è un codice,...l'importante è il contenuto, sostanza, istinto puro, non si sa dove si va a parare, urgenza che prescinde dalla tecnica, la passione arriva. Comunicazione di verità. Empatia
Parla meglio con gli occhi che con la bocca.
Non è uno che ride quando è contento e piange quando è triste. Potrebbe benissimo fare tutto e il contrario di tutto e fartelo credere.

Insensibile e sensibile, dolce e amaro, affettuoso, tenero e disinteressato.

E' un tipo plasmabile su tutto, camaleontico (?). Non dice, si fa dire e alla fine 'diventa' apparentemente ciò che dicono.
Paco 'è' grazie agli altri. Trae linfa dall'altro per 'essere'.
Paco investe la sua vita nella molteplicità delle esperienze che questa ti offre. E' in grado di spaziare, ma non perde mai la sua vera identità (così prima o dopo torna di moda) costituita dalla scelta di vivere così.
Vive le persone come bottoni da schiacciare quando gli va su un CALENDARIO appeso in camera sua, vive persone e situazioni quando ritiene perchè le persone 'si fanno leggere quando è il loro turno' e le conseguenze non sono affar suo perchè non promette niente e se la gente 'sopravvaluta' non se ne sente responsabile.
Persone come libri, storie da guardare esternamente se esterno si può dire uno che entra in ciò che legge trasformandolo nella sua vita e sapendosene tirare fuori quando è 'tempo'. Una specie di 'babele' dei libri e delle facce/sfaccettature del suo personaggio, che magari è una delle poche persone 'vere' e ha bisogno di nutrirsi di tante facce per costruirsi.
Sembra che nessuno abbia la possibilità di conoscerlo a pieno.
Stare al mondo significa relazionarsi con gli altri e dopo un po' si torna ad aver bisogno di questo, di gente che 'c'è' e dunque bisogna prendersi cura delle conseguenze?
Egoisticamente il suo è un gran bel modo di gestire le situazioni/è altruista, generoso verso il prossimo/si corre soli....si corre come cani senza padroni...

Interessante e pericoloso. Sfugge appena lo hai colto: 'vado'.
Sono difese le sue? come si scardinano? con l'istinto e basta se no 'non è cosa'?
La difesa scatta quando cominci a volere più di quello che ti ha dato, mai prima.
Se non si ferma, se và avanti, è perchè sa che non può darti di più = correttezza/onestà di fondo.
Viverlo è l'unico modo per trovare il suo vero significato.
Per tenerlo vicino bisogna lasciarlo andare.

Sicurezza/insicurezza di sè e delle proprie potenzialità? consapevolezza.

Lo specchio riflette solo se qualcuno ci passa davanti. Se per assurdo nessuno passasse di lì cosa ne sarebbe di lui? sarebbe inutile come lo è pensare di non voler soffrire. Volenti o nolenti se si vive e non si vegeta prima o poi si soffre perchè è una parte della vita stessa.

E' uno stile di vita imparato a memoria nei gesti e nei modi e fatto proprio?
E' davvero in grado di mettersi in discussione? Ha paura di mettersi in gioco? La sua paura è curiosità del timore, rabbia ogni giorno più forte, coscienza pura, impotenza verso il destino, inquietudine, si spengono gli ideali per delusione e disillusione (?). A cosa è servito vivere, amare, soffrire? fugge il sogno, lui resta (nichilismo-esistenzialismo).
Non ha più voglia di battaglie contro cose più grandi (fuori c'è un tempo da cani, meglio stare a casa davanti alla tv).
E con chi dovrebbe mettersi in gioco? con chi fa la meteora fulgida nella sua vita per un po' intuendo un varco nella sua anima per poi fermarsi alle sue blindature?

A volte le corazze si possono attraversare, ma solo ed esclusivamente se chi la indossa ha voglia di provare a far entrare qualcuno nel proprio mondo e se quel qualcuno lo vuole veramente. Paco non ne ha voglia?

Pensa di essere impenetrabile? Chiunque può incontrarlo. Rimane attratto e stupito dalla schiettezza di chi vince le sue barriere.
Torna mai indietro? Non passa notti disperate su ciò che ha fatto o avuto. Andate, sono andate. Rimorso per le occasioni perdute (intimista)(?)

Come se ne esce?
Folle monotonia che può essere rotta solo dall'unico sentimento che riesce a catapultarti in altrettanti giorni tutti uguali, ma da cui non vorresti uscire mai...l'amore. L'unica altra possibilità di inceppare la mostruosa videocassetta programmata a ripetersi in eterno sono gli eventi eccezionali. Dai contrasti forti nasce l'emozione e le barriere stanno a zero.

Per lui alla parola amore non segue mai la parola quindi.
Barriere verso ciò che può provare non dice di averne, ma ritiene di non potersi innamorare perchè l'amore non è una cosa superficiale e dopo aver vissuto certe emozioni e situazioni seppur poi abbiano portato ad una fine (c'è una ragione precisa se c'è una pietra sul cuore che pesa; ha già fatto la sua rivoluzione), si fa improbabile riprovarle (statistica)

Indagine altri motivi? com'è cresciuto? famiglia di matti, cresciuto tra nonni (forte senso di appartenenza e affetto per i luoghi che vive e le radici che trova) e mattoni (si è costruito una strada/casa da solo o con i suoi compagni di strada), famiglia di origini contadine: saggi ignoranti di montagna che sapevano dante a memoria e improvvisavano di poesia.

Ritiene di poter vivere solo più rapporti superficiali.
Non ci crede più? (quando riparte il treno, parte)
Non ha stimoli giusti?
Cerca? e cosa? certe crisi sono segno di qualcosa dentro che urla per uscire (coerenza dell'essere di Paco); non ha più energie e fiducia, è prosciugato umanamente e arrabbiato e non ha più nulla da dare, nè trova stimolo nel cercare. E' stanco, ha problemi materiali e interiori, ha voglia di riposare il cuore, ma non trova pace. Reduce.

Come a dire 'la vita è stronza e bisogna esserlo di più' vive un'incapacità di esserlo davvero. Umanamente attraente ed apprezzato in un contesto in cui ogni fattore è una variabile.
Si dice da solo che è tutta una finzione di essere se stessi.
Curiosa alchimia di vita mista tra impulso ed intima razionalità.

Rischia di perdere cose intense della vita, ma vive quasi tutto, pur non andandoci incontro. Accoglie.
Ci sono cose per cui vale la pena rischiare? Il rischio vero è il suo?

Si espone poco, ma dà tutto (non è egoista) anche con due parole e a chiunque ritiene interessante sulla sua strada (buoni osservatori, uomini e cose semplici, MELOGRANI PER CASA), ma ti mette le CHIAVI IN MANO e la SERRATURA te la trovi tu. Non si consegna a te. Si lascia amare, ascoltare, leggere. Talvolta appare freddo, ma fa parte dei rari che sanno cosa sia la passione. Si butta anima e corpo in ciò che fa.

I personaggi 'difficili', particolari, vitali (!), prendono e riempiono e mettono in moto aspetti degli altri. Provocatori di idee. Sono importanti nel creare sensazioni, stimolare, farsi porre domande, spingere a capire.
Paco è un PALO, da lasciare così com'è, nessuna rivoluzione che porterebbe al solito finale scontato e quasi mai vero 'ed insieme vissero felici e contenti tutta la vita'. La disillusione di Paco è una delle fragilità che gli danno umanità e non è da vincere sostituendole la magia (se no sarebbe una favola, finta), nè da sottovalutare, ma è fragilità umana da vivere (CAFFE' AMARO di Paco dopo l'ubriacatura).
Paco deve poter crescere.
I personaggi che hanno a che fare con lui cambiano, si trasformano, capiscono qualcosa di se stessi proprio per averlo incontrato.
Pugnometro: il tizio di turno misura la sua forza su di lui, alla fine si sceglie chi ti mena meno.

Uno di quegli uomini 'di passaggio' che sono belli se presi per ciò che sono e nel momento in cui si prendono anche perchè a dosi più massicce si rischierebbe di veder diluito il principio attivo che sembrava piacerci.
La poca intelleggibilità stanca e si può scoprire come dietro ci sia poco o altro da ciò che si credeva (?). Poco affidabile.
E' una perdita di tempo ed energie? Bisogna lasciare che si trovi da solo se si sta cercando e che si perda da solo se non sta cercando nulla.
E' difficile prenderlo e perderlo. 'Passaggio' che non si schioda facilmente dalle menti dei personaggi che lo incontrano.
Trappola. Spirale ciclica attraverso 'bacio' (gioco ce l'hai). PUPARI.

Uno di quegli uomini che sulla carta nessuno vorrebbe ma che in realtà qualunque donna vorrebbe far suo o uno che apparentemente tutti vorrebbero ma nessuno va avanti veramente a cercare? cosa comunque impossibile: non sarà mai neanche di se stesso e lui lo sa.

Limite del suo senso di libertà. Vive di viaggi di pochi giorni, tenta di vedere più cose possibili e si imbatte in paesaggi stupendi che tolgono il fiato, per un attimo pensa a quanto sarebbe bello abitare in quel posto, ma poi la strada chiama per riabilitare corpo e spirito e quel senso di libertà non imbrigliata gli impone di andare, per non perdere un briciolo delle infinite possibilità che la vita offre chè la sfera del possibile ha sempre il suo fascino.
Precisa scelta quella di non soddisfarsi per mantenere lo status quo.

La conoscenza del posto rimane superficiale, magari per mancanza di tempo ci si perde il meglio che stava in un quartiere inesplorato, magari avrebbe potuto amare di più, fermarsi in un luogo anzichè viaggiare. Alla fine ci si può stancare di girare e scegliere un porto sicuro a caso. Sempre che durante il viaggio non accada l'imprevisto. Quello capace di farti fermare con naturalezza e fanculo la libertà. O puoi trovarla lì la libertà e costruirtela e capirne il senso. Pensare che ne valga la pena.

Immaturo? Poco costuito? Giovane/Vecchio (Guccini; narcisismo-Dorian)?
Fasullo di cui è pieno il mondo? un debole 'con una maschera enorme a carnevale'. Maschere sociali, intime, profonde,...(Eyes Wide Shut)
Nasconde il vuoto dentro a un'apparenza affascinante per chi si fa abbindolare dalla superficie piacevole?
E' un bluff? Una partita persa in partenza?
Siamo tutti finzioni e lui ne ha consapevolezza dunque è più vero? E' presunzione perchè non tutti sono così?
Potrebbe far cadere in trappola qualcuno che invece ha provato a rischiare? da subito questo personaggio dà idea di poter disporre delle vite altrui, troppo potere in mano a uno solo.
L'unico secondo fine nei rapporti sembra sia quello di non soffrire, non si permette mai di correre il rischio di stare male. Sta bene(?) e forse la sua debolezza è proprio l'adottare questa strategia senza lasciarsi andare ad emozioni che ti mettono in gioco e rischiano di scottarti. Debolezza in quanto rinuncia troppo grande.
Oppure si sente talmente figo da non considerare paura di soffrire la sua scelta di vita. Da cos'altro può essere dettata?

Esiste un solo modo per sentirsi felici: sentirsi in mano la propria vita, scegliere il proprio destino. Protagonismo responsabile. Libertà(dipendenza/schiavitù da essa).

Ci si rispecchiano tanti? (non è poi così originale? ci sono tanti originali)
Si vorrebbe essere così o no?
Fa paura, tristezza?

Paco è malinconico e solitario. Vive fasi di vuoti emotivi che lo portano a guardare al passato con nostalgia; l'aria malinconia non gli passa neanche nei momenti di giubilo.

Resterà nella sua bolla multicolore come se nella sua vita niente fosse successo?

Paco è....
- mancino, fotocamera in mano, testardo, anticlericale con sua fede, animale notturno

- manager/organizzatore che orchestra la la disposizione lavorativa cercando di trarne il massimo profitto (un tipo plasmabile non può fare il manager)
- collezionista di bottoni (il collezionismo ha bisogno di capacità di selezione e ricerca, non statistica)
- pubblicitario
- equilibrista squilibrato
- portiere in un albergo lussuoso (albergo venezia) in cui non potrebbe permettersi di soggiornare. prende un po' dalle vite di quelli che osserva, vite che non potrebbe mai vivere. (bluff: non può permettersi 'il lusso')

- al caffè della stazione (lei si alza, disegna con le mani; lui resta seduto senza sapere che fare)
- ubriaco in osteria (caffè amaro) (incontra un uomo con un'età, un dottore, uno sposato, un annoiato, un impaurito)
- ad osservare un'alba inutile (malinconia)
- in una gondola (la gondola è una giostra fuori dall'albergo - niente è come sembra)
- 'non so cosa ci sia in cantina, ma prendi cosa vuoi, qui ognuno viene e ruba qualcosa' (scambio di bottini)


- un giocatore, ma non è stupido. Mette in gioco anche la sua libertà (dà tutto se stesso/elimina i suoi filtri per scoprire le carte?) ed ha già quello che vuole. Cerca altro ancora? complicità (libertà - amore utile, vive storie semplici). Gioca 'realmente' con (?) gli altri, unisce illusione e forza (fragilità) e viene amato per questo. Si fa volere bene. Cosa trova nel suo gioco?
Se chiamato a giocarsi tutto (ciò che non ha più), sfugge. Non è un giocatore (bluff) o non crede realmente nel suo gioco (illusione come ragione di vita)? O è onesto. O non crede in se stesso e nel suo potenziale. Non ha carte.
I paco-bluff vengono fuori al bivio: staticismo - non avere coraggio di portare avanti la propria illusione in una sfida con gli altri, non avere coraggio di buttarsi in campo a giocare la partita anzichè guardare il palco/campo. Non reggono il gioco. Paco ha una voglia matta e paura di salire sul palco e dopo averlo costruito quando lo invitano (narcisista) sopra (perchè se lo merita) ci si arrampica e ritrova la sua dimensione (è il posto suo). Gioca responsabilmente sempre le sue partite. Si preclude (? non ha interesse) partite a cui lo invitano gli altri, ma che non gli sono proprie, senza un motivo che vada oltre se stesso (limite; fragilità, filtri).
Ci si può giocare una vita con le illusioni.
Che illusioni? Perchè sceglie di giocarsela così? (non crede più nella realtà)
Che ci trova? (se stesso, vita, una propria immagine di cui potersi innamorare - narcisismo)
Cosa gli toglie questo modo di vivere? (delusioni, fallimenti?)

- pietra: sassolino portafortuna, costruisce la sua chiesa, scagliata
- foglia aggrappata su un ramo in attesa che vede le altre cadere via via

- musica: rock/jazz
- drink: white russian
- detti: la necessità è irresponsabile, la fortuna instabile, invece il nostro arbitrio è libero (epicuro);
la vita è ciò che facciamo di essa, i viaggi sono i viaggiatori, ciò che vediamo non è ciò che vediamo, ma ciò che siamo (pessoa);
saper intromettersi tra le cose e se stessi è il più alto grado di savietà e prudenza;
diventa ricco o muori provandoci (paco rapina/è rapinato)
- luogo: sud italia
- songs: mister paco, caravan de ville; battere e levare, de gregori; l'isola non trovata, guccini; eskimo, guccini; 100 pennsylvania avenue, guccini; l'orizzonte di k.d., guccini; il suonatore jones, de andrè; pezzi di vetro, degregori; intorno a 30 anni, locasciulli
- letture: gozzano, morte dell'utopia; pessoa

lunedì 21 dicembre 2009

Fraintendimi, baby - a Ric

Davanti alla scuola elementare distribuiscono pacchetti di figurine. Tu pensavi di capire tutto cercandomi dentro alla borsa e al cellulare; io invece aprivo una pagina a caso scegliendo le copertine dagli scaffali e mentre i miei genitori facevano la spesa rimanevo lì, nel reparto libri del supermercato, a leggere finchè non tornavano a prendermi come fosse una sala bambini inventata e gestita da me o una biblioteca. Qualche altra volta, invece, con i miei fratelli giravo tra le corsie fino a perderci e se pensavamo di aver raggiunto lo scopo e poi, voltandoci, trovavamo papà o mamma proprio lì, in arrivo incontro a noi, ricominciavamo a girare nel labirinto di scaffalature e gente e carrelli per poi raggiungere il box informazioni e farli chiamare con l'interfono o aspettare che fossero loro a far ripetere i nostri nomi in tutto il supermercato, rigorosamente con la pronuncia storpiata.
Egocentrica e già bambina.

La ragazza che non scrive legge poesie nella sua stanza per dimenticare cos'ha dimenticato di buttar giù. Ti ha letto il vangelo, la seconda di copertina ti ha ricordato che carattere ha. Tu mi scrivi cartoline a cui non appendi francobolli. Io ti rammento, rammendo, fermo, raffermo, come ho lottato per averti. La ragazza che non c'è ti ha guardato e si è annoiata.
Mi sono travestita da ragazza qualunque. Via, sì, fatemi essere la... no, una...ragazza qualunque per un giorno.
Ho lasciato la strega a casa, ho tenuto solo il suo cappello; a quello come a una barba lunga non si può proprio rinunciare anche se non piove.

In tanti in uno spazio piccolo ci si trova subito e la pioggia è bella tranne quando non ti puoi, non ti devi, bagnare. O se hai i pantaloni lunghi e fai a gara a non calpestare le pozzanghere e tagli il tuo ciac ciac. Peggio, bianchi.
La pioggia non spaventa neanche i vecchi soli.
Invece i posti piccoli con tante persone sì, impauriscono tanti. Che strano.

Il...un poeta con la barba scura leggeva le sue cose nudo davanti a tutte le tante persone in un posto piccolo, angusto, dove non accettano bene i bambini, ti dicono. E tu ti guardi intorno e trovi facce, tante, sorridenti come nei supermercati non se ne incontrano neanche se fai a gara nel perderti. E burattini appesi in alto.
E ti dicono in un posto piccolo che non possono accettare, in verità, i bambini mentre un poeta legge poesie d'amore e le facce ridono, si guardano, si riconoscono e non si conoscono e fuori c'è la pioggia che accetta tutti e ti vuole bagnare, ma non fa paura a nessuno pure se è potente e inventata e inviata da dio.

Le poesie di un poeta, nudo, si leggono con facce ridenti eppure fanno paura dentro a quel posto piccolo pieno di facce che le puoi guardare. I bambini non possono entrare, è vietato, è la lege. E quel poeta chissà se ha paura delle sue nudità, nelle sue timidezze, nelle sue sicurezze.
Chissà se l'imbarazzo gli intasa la voce come con le ragazze quando sta per baciarle e deve chiedere prima il permesso o se ha timore d'essere confuso come dopo che hai preso una botta in testa e ti senti il sangue pulsare e credi di esserti innamorato.

Mi vesto e travesto da una qualunque, mi metto i jeans. Blu. Come le pareti di un posto piccolo, angusto. I bambini non li accettano, bene.
Una ragazza qualunque di sabato pomeriggio dentro alla via principale del centro, in mezzo, durante una manifestazione mondiale.
Certo, i jeans alla ragazza qualunque vanno un po' stretti, era da tempo che non li mettevo per sembrare una qualunque come mi vedi e percepisci e riguardi e conosci senza riconoscermi.

E il suo corpo è quello che è e non sembra qualunque, ma comunque nuda, in mezzo alla piazza no, anche se non sei timida.
Tante facce. E' vietato per legge mettersi nudi.
Non scherzo, nudi come mamma t'ha fatto.

Ad un poeta secondo me un po' piace mettersi nudo con tutt'i vestiti che lo stanno a guardare. Certo non sempre è un bel vedere. Con Giacomo, per esempio, sì.
Per il poeta, uomo qualunque che incontri dove meglio ti viene, pure vestito con gli occhiali da sole e il cappello o la barba nella via principale del centro, ciò che spiace è esser poeta qualunque e non uomo.
I poeti le hanno le mamme? e ci sono tra le facce nei posti piccoli e angusti a sentire i loro bambini nudi declamare poesie? e nudi, è proprio vero che d'istinto le mamme li riconoscono al volo i loro piccini, poeti?
Le mamme si amano con i poeti, amano i poeti e li figliano solo per dirgli di cambiare mestiere?

Imbottiti per non bagnarsi di tanta pioggia nè di solo sole, sia poeta sia ragazza qualunque. Diverso sarebbe togliere il cappello e buttarlo ai piedi di Francia perdendomi per strade come fossero corsie di un supermarket o tagliare la barba per somigliare a una donna, poeta.
Io nelle mie poesie ci scrivo quello che voglio: d'autunno, di pioggia e d'amore, di barbe e di sole, di cappelli dimenticati sul cuscino e capelli lasciati sul tavolno del treno.
E pure se tu, invece, mi hai amata come una qualunque incrociandomi a caso e vedendomi nuda di notte con la pioggia sulle serrande che non ti faceva paura, sotto le coperte, sappi che ero tra quelle facce di un locale angusto e piccolo e restando fuori, mi hai persa. Come una poesia non letta e tagliata dal libro, abbandonata sulle pagine di un quaderno qualunque che, a saperlo far leggere a tutti, a saperlo leggere tutto, t'avrebbe fatto ricco.
Cercami senza tacchi, nè spilli, perchè stasera li metto e non ti punzecchio e mi faccio bella d'una bellezza qualunque, qualsiasi, d'una bellezza comunque.

Sai, mi vengono le poesie quando mi guardo gli occhi nella faccia, in bagno come tutti o tanti. Tanti poeti s'ispirano nei bagni di casa. Alcuni scrivono stronzate banali perchè non riescono neanche a non confondersi, si credono amanti. Non amano, prostituiscono la poesia.
Oggi litigo con le lenti a contatto e le metto così devi guardarli bene questi occhi qualunque per riconoscere se faccio parte dei ciechi, se ti dico e ti desidero davvero.

La ragazza che ami come una donna qualunque non può, non deve, essere perfetta, nemmeno vederci tutto, se no le mancherebbero le imperfezioni di cui innamorarti, in cui incastrarti e sarebbe un disastro.

Ho imparato, da bambina, che se vuoi qualcosa devi volerla davvero. Mettersi gli occhi può volerci un attimo o molto di più, anche una vita davanti allo specchio con nervosismi che proprio quando stai per gettare la spugna, contro lo specchio, buttare la lente, se fai fatica ancora un momento, questa diventa canna da pesca e s'appiccica alle pupille anche per sempre, fino a che vuoi tu o non accade un imprevisto di nuovo.

Riccardo è un nome che mi piace. Ha tante erre ruvide da divenire scemo un poeta che dovesse leggerti in pubblico, tra le facce che aspettano, aspettano te, le tue erre, per ridere. Ma ha pure due 'ci' che si stanno vicine e non t'accorgi. Riccardo finisce con una nota musicale, ma è tutto un componimento.
Riccardo, io ti chiamo Ric e ti dimezzo le consonanti doppie e ti tolgo le note finali perchè tu per me sei speciale e Riccardo è un nome normale. Ric è più piccolo, forse più personale.
E' la legge che hai letto? Riccardo, perchè non mi hai aspettata?
Appiccicata, invece, ad una pagina di un album, come una delle tue ragazze qualunque.

21/12/09 11.54

venerdì 18 dicembre 2009

Ma vaffanculo a quando fai così

A quando mi lasci in sospeso a pensare che sei te
e subito dopo mi suggerisci che non lo sei;

A quando fai così......
e ti fai lo stesso voler bene

A quando non capisci che sono abituata a stare al centro dell'attenzione
e ti concentri a dirmi stupidate (perchè in quel momento lo sono)

A quando mi fai pensare che allora non mi capisci così bene
e mi ripeti che non sai cosa intendo dire

A quando ti vorrei qui, mannagg'a te
e vai nel tuo letto diventato per due notti nostro
e già mi lasci,
in questa distanza incolmata,
con quell'abbraccio che mi manca da morire,
con i tuoi pensieri e le sensazioni che non so, non conosco bene
e con la consapevolezza che se fossi lì sarebbe perfetto,
ma non sono lì.

A che ti servo?

Non puoi proprio mai capire che per una volta posso essere io a stare male nel sentirmi "utile" solo e unicamente quando hai voglia tu di parlare del fatto che c'hai qualcosa per la testa.
Non riesci neanche a vedere che una volta ti sei incavolato tantissimo per uno che mi aveva fatta piangere e adesso sei vicino ad essere tu quell'uno.
Non riesci a renderti conto che non puoi tenere una persona lì per quando ne hai voglia tu e poi dimenticarti che esiste, perchè non si può. E basta.
Non posso capirti se non mi parli mai direttamente quando si tratta di me e te che definirci "noi" adesso pare un reato da non dichiarare.
Non riesco neanche a vedere il resto del nostro legame, che so che rimane, se poi su queste cose non ci sei proprio mai.
Non riesco a rendermi conto se sono un giocattolo rotto che ha preso troppa polvere o se mi hai vista davvero in tutte quelle sfumature che mi hai detto in miliardi di colori che abbiamo vissuto senza dircene i nomi, ma recependoli come arcobaleno. E pioveva sempre.

Scrivo un sacco di cazzate ogni volta che penso a te.
Sarà per questo che non trovi più niente di decente in ciò che leggi e passi sempre meno ad interessarti di queste pagine...
So che delle volte mi faccio idee che non corrispondono per forza alla realtà delle tue, ma le tue non le so e mi ritrovo a districarmi tra le immaginazioni delle risposte che non mi dai.
E quando ne vedo nei fatti, non so che pensare. Come un'idiota che non sono mai stata.

Bene.
Forse sei riuscito a cambiarmi, ma non credo.
Forse stai solo riuscendo a distruggermi, ma so che sono abbastanza forte per tutto e che al limite sarei in grado con queste parole di farti capire che il male che mi fai è un alibi abbastanza plausibile per mandare a fuoco quella cazzo di lanterna che tanto, così com'è, non fa più luce. Fa solo puzza d'olio bruciato e, per me, un mare di ricordi in cui farei prima a gettarla senza tanto faticare nel cercarne i pezzi al buio della nostra ultima conversazione a metà.

Addio.
Non sono abituata nè capace nè sensata ad essere diversa da me stessa ed è questo che nei fatti tu mi chiedi. Di esserlo o di sparire.
Bene, le risposte già le sai perchè mi conosci,
grazie.

Riempi un'altra cartolina con le idiozie che puoi pensare a questo punto, tanto tu hai deciso che ho cambiato indirizzo, tu hai deciso che cosa va bene e cosa no, tu hai capito chi sbaglia e si mostra infantile e io no.
Non hai bisogno di me.

martedì 15 dicembre 2009

io.

La mia infanzia - pur avendo passato anche qualche esperienza piuttosto brutta tipo questa o l'aver rischiato un annegamento cumulativo di tutta la famiglia una volta al lago maggiore, è stata un periodo molto felice della mia vita. A 16 anni per una mia precisa e consapevole scelta mi sono trasformata da pecora bianca a pecora nera della famiglia vivendo un periodo di punto in bianco privo di qual si voglia appoggio famigliare, anzi. L'ho fatto perchè credevo fermamente nella strada che andavo a prendere scegliendo, dopo svariati tentativi di dialogo con i miei, di vivere una storia d'amore che loro disapprovavano. Mi sono ritrovata sola e neanche realmente perchè più che da 'sola' ho vissuto quel periodo 'da reclusa ed esclusa' nella mia stessa famiglia.
Da quei giorni sono caduti però tanti tanti muri e ho via via capito quanto sia meglio - per quanto costi - vivere senza un nido piuttosto che sotto una campana di vetro e quanto questo comporti rischio e insicurezze.
Mi sono innamorata della vita vivendola pure dove e con chi 'non mi era concesso', a modo mio e devo dire che pur trovandomi spesso da sola e non compresa per mie scelte ed il mio modo di essere, ho riscontrato notevoli e significativi segnali di quanto ciò che 'sono' viene effettivamente comunque trasmesso agli altri.
Sono orgogliosa di me e non so se questo si chiami narcisismo, ma lo sono al punto da non interessarmi come vincolo vitale il fatto che ne siano orgogliosi gli individui che ho intorno. Non posso nè m'interessa negare che tengo a questo e anche molto, ma più come un bisogno ed una voglia di comprendere l'altrui testa e sentire - anche di questo l'importanza l'ho capita vivendo - che non per una concreta esigenza di sapere o trovare approvazione nel giudizio degli altri.
Ho scelto progressivamente di pagare il costo della mia libertà, forse alla fine è questo. Libertà anche dalle schiavitù che c'infliggiamo noi stessi sostanzialmente per paure. Io le mie paure e le mie sofferenze me le vivo tutte, ben contenta di farlo, non per un malato masochismo, ma perchè credo fermamente che la vita sia anche questo. E che si sia uomini e donne quando tutto ciò si riesce a guardarlo in faccia ed affrontarlo. Guardare in faccia uno, dieci o cento amori pronti a stringerti le mani e tirarti su è superficialmente più facile che non essere banalmente capaci di rialzarsi da soli, piuttosto che scegliere di mettere in discussione le proprie passioni ogni giorno senza darle per raggiunte e contemporaneamente perderne il valore.
Mi dicono di 'fottermene' di tante cose e persone praticamente tutti dopo mezz'ora che mi guardano in faccia. Non riesco a farlo. E' un mio limite o una scelta precisa o una difficoltà caratteriale dovuta all'aver assimilato prima dai libri e poi dal vivere quotidiano la corresponsabilità così come una sorta di 'co-emozione' che è qualcosa di più e di diverso dalla commozione di fronte alla vita degli altri.
Vivo di emozioni, che siano fugaci tratti di penna o forti inconciliabili sensazioni che non si placano in anni e mantengono un contrasto con le mie quotidianità o con la voglia che mi prende ogni tanto di stoppare questo incedere di ritmi impossibili da seguire persino talvolta per me. Eppure la cosa più bella è che quei tratti di penna e quel quotidiano me li scrivo di mio pugno come più o meno fanno tutti. Consapevolmente o no.
Ora la questione può tornare ad essere: si finisce per recitare comunque se stessi scrivendosi addosso e illudendosi di avere in mano il proprio destino?
non lo so. Quello che è certo, per me, è che non ho mai costruto nè fotografato immagini fasulle e che con le mie contraddizioni ci gioco a carte o a scacchi tutti i momenti e, tirandomela, rendendomi evanescente, narcisista o fragile che sia, non mi privo mai delle mie partite.

come bambini

radiohead - i will

Poteva essere di pomeriggio come di sera. Raramente, mi vien da credere, potrebbe essere stato di mattina perchè ci andavo che mio padre aveva finito di lavorare... allora collaborava ancora con loro a livello professionale....e d'altra parte ci mettevo piede quasi esclusivamente nel weekend, da che ricordi.
era la ditta di galvanica dei miei nonni di cui mio padre era allora ancora socio. Là, invece, era casa loro.

Se fossimo in un film a questo punto restringerei la prospettiva delle inquadrature fatte e mostrerei uno, forse il primo, di quei panorami di verde orizzonte che si mischia nel cielo di cui ho imparato ad innamorarmi nel corso del tempo e degli sguardi distribuiti qua e là nella mia vita.
Ebbene, non c'erano solo grandi prati e "la Ditta", ma pure quei rovi di more ispidi di cui ho già scritto in qualche mio racconto e soprattutto quel naturale e selvaggio benessere che ti dà l'entusiasmo verso qualcosa che da bimbo ritieni 'nuovo' e questo pure quando lo ripeti abitudinariamente ogni giorno come noi, con mamma, quando andavamo a prendere papà all'uscita dal lavoro e reincontravamo i miei nonni.

Non credo trascorressimo poi tanto tempo lì, ma poteva capitare che lui dovesse finire la preparazione dei materiali dell'ordine urgente di qualche cliente o portare a termine qualche 'bagno' negli acidi facendo girare dentro vasche di liquidi colorati, che ci dicevano essere molto pericolosi, rulli pieni di pezzi di metallo che non ho mai capito a che servissero. E noi giocavamo a seguire passo-passo questa enorme catena di montaggio meccanica.
Restringiamo ancora.

Quando dico e ripeto 'noi' mi riferisco a me ed ai miei fratelli e talvolta cugini.
Quando dico 'nonni' intendo due persone che hanno (se tutt'ora in vita) poco più d'una ventina d'anni a testa in più dei miei genitori, d'origine sicula entrambi e mamma e papà, come già detto, di mio padre.
Restringendo ancora.

La signora la si riconosce pensando ad una classica donna del sud-Italia, le proprie radici le si scovano guardandola in faccia e cercandone rughe, pure se trasferitasi al nord per seguire con i figli il marito in una di quelle famiglie in cui si fatica a distinguere il capofamiglia poiché la sua figura cambia in base alle funzioni di cui si tratti. Ci preparava panini con olio, origano e rosmarino e la prima volta che noi con voce imbarazzata cercammo di farle notare che s'era dimenticata il contenuto dentr'al pane, abituati com'eravamo alle merende degli asili di città, lei si mise a ridere e ci raccontò la storia della 'ricetta' di una delle due patrie nostre. Assaggiare quel pane con un nuovo banale sapore, mi rimase sapore in bocca per tutta la vita: il gusto delle lezioni.
Per tratteggiarne la figura potrebbero essere bastate queste poche gocce di colore, ma aggiungerò pure di quando intorno al tavolo rotondo della Ditta ci radunava noi nipoti e con al centro grandi bacinelle piene di fagiolini freschi, gli toglievamo le punte o ci impegnavamo a sgranare i fagioli dal baccello contenti di avere trovato un passatempo occasione di gioco e dei racconti di nonna e di esserle utili per preparare il pasto intanto che lei era impegnata ai fornelli da cui salivano fumi e profumi di pietanze preparate sempre troppo abbondanti e piene di passione.

Dirò, contraddicendomi un poco, che alcune volte quel 'pasto' era il pranzo. Alcune volte, in effetti, qualcuno di noi rimaneva in Ditta con papà l'intera giornata anziché andare a giocare nel mitico 'retro' dell'ufficio di mamma, una foto-copisteria direzionata negli anni in un laboratorio grafico. Suppongo quelli di cui ricordo fossero i periodi di vacanza estiva dalle scuole, più che altro.

even flow - pearl jam
Il signore pareva essere stato una specie di bell'imbusto di famiglia considerata ricca in Sicilia perché proprietaria di uno spaccio. Per sì e per no le ragazzine di Pachino gli correvano dietro ed una di esse fu ricambiata e divenne così mia nonna. Mio papà, secondo di quattro fratelli, nacque in quel di Noto poiché l'ospedale più vicino era in provincia di Siracusa.

Il signore, da raccontare avrebbe potuto averne parecchio. Per esempio di quel viaggio dal meridione per tutta Italia, da solo, con l'illusione di un lavoro facile con cui sfamare la famiglia e della difficoltà di quella ricerca per un siciliano ai tempi di un Piemonte ancora 'vecchio' per corrispondere a pieno quelle speranze.
Oppure delle svariate professioni in cui s'era improvvisato nell'arco della sua età. O di quella manciata di giorni trascorsi in carcere, condanna di un errore non suo ma di un ladro che aveva rubato dalla sua demolizione la targa d'un auto per poi attaccarla ad un'altra macchina, rubata, e commettervi forse una rapina.
Invece non parlava poi molto.

Avrebbe pure potuto dire di più sulle storie degli animali sempre amati e di cui si era sempre voluto circondare. La Ditta non dava come lavoro il solo traffico di macchinari che tiravano su e giù e facevano roteare rulli pieni di pezzi di ferro perché, a parte i gatti che gironzolavano ovunque, nel cortile adibito a spazio per i cani e a serra per le piante, lui aveva pure costruito una casetta a mò di capanno. Lì si trovavano capre, tacchini, galline e conigli. Dunque l'impegno era pure di raccogliere le uova la mattina, per esempio e dare di che sostenersi a tutti gli animali. Una volta, per quanto ricordi, una capra finì pure in pentola.

Io provavo attrazione e repulsione all'idea di entrare in quella casetta perché mi facevano paura i tacchini che iniziavano subito a svolazzare arrabbiati o forse impauriti essi stessi. Qualche giorno avevo pure dovuto prendere via di fuga dal cancelletto laterale perché la capra più grande era uscita dalla sua 'stanza', come faceva sempre quando sentiva rumore forse convinta che ad ogni sbattere di porta corrispondesse l'arrivo di un po' di cibo. Mio nonno spostava il caprone accompagnandone il passo nell''area' prevista per lui nel capanno, ma io, bambina poco più alta delle sue corna, davanti alla sua stazza ed ai suoi versi, me ne guardavo bene.

Mi piaceva star lì, al lavoro di papà, con gli animali, i prati immensi, le more tra i rovi e le biciclette impolverate e mezzo scassate su cui a turno tutti noi nipoti ci eravamo sbucciati gomiti e ginocchia (mio fratello si era comportato una cicatrice profonda che ha ancora) imparando a pedalare.

Mi piaceva pure andare la domenica a mangiare a casa dei nonni che comunque vedevamo meno di quelli materni (ma sempre più spesso che negli anni successivi in cui, finché li frequentammo, fu raramente). Quella casa, piena di oggetti e con quel grande acquario in cui se giravi l'angolo, cambiando lato da cui osservare, cambiava anche la prospettiva ed i pesci sembravano ingigantirsi mentre li seguivi nei loro movimenti. E sopra l'acquario, il quadro di un bambino.

Nella grande sala c'era un tavolino di vetro trasparente con le gambe dorate. Era sistemato davanti ad un divano-letto e due poltrone. Su una delle due stava sempre seduto mio nonno davanti ad una televisione che qualche volta era a volume così basso che teneva compagnia giusto guardarne le immagini. Lui si alzava solo per venire a tavola e se volevi sperare di scambiare quattro parole con lui all'infuori dell'orario di cena, cascasse il mondo, dovevi essere tu ad andare a prendere posto nel salotto con lui.
I miei fratelli ed io sotto quel tavolino ci infilavamo rotolando sul grande tappeto intenti a mangiare le caramelle che prendevamo da una scodella appoggiata lì sopra che aveva la forma di un dado a tante facce ed era tutta rossa.
Ogni volta, ci si poteva giurare, eravamo o lì o davanti l'acquario o a giocare nella camera del nostro zio più giovane, il quale non c'era mai perché nel week-end, ci si diceva, era sempre a Milano da amici che per nostra malizia credevamo consistere in una fidanzata e che scoprimmo più avanti negli anni essere 'un' fidanzato.

La grande sala, che sembrava una foresta talmente era ricolma di grandi piante, era anche teatro di cenoni e veglioni delle festività natalizie e di fine anno.
Vi era pure una piccola scimmia che, ci raccontarono, prima di morire ed essere imbalsamata era stata compagna di famiglia e mia nonna ogni tanto l'aveva pure vestita di piccoli abiti che lei si strappava puntualmente di dosso. Una volta aveva morso un dito a mio padre bambino.
Fatto sta che quella scimmia lì imbalsamata nel suo trespolo con la bocca aperta e quei dentini in vista, a me non aveva mai invitato tante carezze come invece facevano spesso gli altri miei fratelli e cugini, mentre ridevano di lei.

Ma quel salotto col tavolino basso, il pollaio, quei rovi di more, ispidi e quei prati in cui andavamo a giocare a palla o a guardare il deltaplano planare, non li avevo solo amati.
Sono stati pezzi di vita vissuti in maniera piena, direi quasi totalizzante, cornici attorno a momenti in cui ti ritrovi dentro senza nemmeno sapere di esserci e come, come penso potrebbe descriverli chiunque abbia subito molestie.

L'erba era alta abbastanza da coprire ben oltre le ginocchia di una bambina di quell'età e questo rendeva più facile tutto, pure con terze persone a pochi metri.
D'altra parte se dal raccogliere more si fosse tornati senza averne una sola con sé, nessuno si sarebbe stupito perché chiunque di noi bambini vi si avventurasse, da solo o in gruppo, era capace di tornarne che l'unico modo per rendersi conto che era stato intricato in mezzo ai rovi poteva essere al limite quello di scorgere qualche graffio in quanto le more le aveva mangiate tutte strada facendo e questo nonostante gli adulti tutti ci dicessero che sarebbe stato preferibile lavarle anziché pulirle solo un po' con le mani. Dunque le mezz'ore tra i cespugli da cui tornare senza more erano comunque giustificate.
Per chiudere la porta del pollaio c'era pure un lucchetto e si poteva essere più sicuri che pure se qualcuno si fosse presentato con l'intento d'entrarvi in orari un po' insoliti si poteva dare facilmente la colpa al caprone come avesse bloccato l'ingresso e si aveva tutto il tempo di rimettere a posto i vestiti. Ad ogni modo non c'era granché di cui preoccuparsi immersi com'erano tutti nel proprio lavoro.
Quando entravamo in casa dei nonni paterni, usualmente la domenica, la nonna era in cucina affaccendata a preparare da mangiare ed era normale che le chiacchiere per cui non si trovava tempo e calma di intrattenersi troppo durante la settimana trovassero invece situazione comoda, tranquillità e dunque sfogo in quei momenti di pausa dai giorni lavorativi.

Ci toglievamo le giacche e posavamo le borse in entrata appendendole ai bracci dell'attaccapanni e salutavamo la nonna che tagliuzzava sempre verdure e a quel punto buttava la pasta nell'acqua della pentola che bolliva probabilmente da un po'. Lei, inconsapevole, ci diceva sempre di andare a salutare nostro nonno che era come al solito in sala.
In sala, la poltrona dava le spalle alla porta d'entrata della stanza e la luce era sempre inequivocabilmente spenta perché avrebbe dovuto favorire forse la visione della televisione e più che altro aiutava gli altri che avessero dovuto entrare d'improvviso nella stanza a non vedere e non rendersi conto di che succedeva dando il tempo a lui, ancora una volta, di rimettere a posto mani e vestiti e fare come se nulla fosse accaduto.
Si poteva trovare normale pure se ci si fosse accorti che qualcuno dei nipoti tornava più tardi del tempo d'un saluto al nonno senza sentir provenire voci dalla stanza, essendoci la tv accesa.

Ciò che non so come potesse essere altrettanto 'normale' era come potessi pure io fare come se nulla fosse "dopo", come non mi fosse venuto spontaneo andare subito a dire quanto subivo ai miei genitori con i quali non avevo mai avuto certo fino ad allora e per molti anni ancora alcun problema nei rapporti e con i quali non avrei già allora avuto sicuramente grande reticenza o paura a parlare. Tant'è, che quando venni a sapere da un'altra vittima delle stesse molestie di mio nonno che non ero la sola coinvolta, lo feci immediatamente di bocca mia ed ovviamente proprio con loro.
Certo non mi piaceva, sapevo che c'era qualcosa che non girava nel modo giusto in quei momenti e forse non capivo come scrollarmi da quel che le circostanze tendevano a rendere invece così dannatamente in apparenza possibile, 'normale'. Mi dava fastidio, lo sapevo essere sbagliato, volevo sempre scapparne. Ma lui, più forte evidentemente di me, non faticava a trattenermi e costringermi a movimenti che non volevo. E io non chiamavo aiuto. Non mi veniva in mente.

Mamma, appena venutane poi a conoscenza, in quella casa stessa per brevi frasi all'orecchio, si prese subito a cuore la situazione insieme a papà come d'altronde non avevo dubbi avrebbero fatto e con la sensibilità attenta di cui la so portatrice non mi bastò che quel gesto e poche parole al suo orecchio per far finire tutto quel brutto film che film non è mai e poterne parlare senza farne taboo con me stessa e non rimanerne neanche perdutamente bruciata nell'animo turbato da un trauma. A casa, successivamente, ne parlammo meglio.

Lui iniziava scherzando, credendo forse di farmelo passare come un gioco come comunque non sono riuscita a viverlo neanche per un attimo. Non diventava diverso da quello di sempre, non si trasformava nemmeno nel personaggio cattivo d'un fumetto eppure sapevo che non c'era niente di buono e di giusto nel mettermi le mani addosso contro la mia volontà e trattenermi con forza laddove, appena capito il suo intento, me ne cercavo di sottrarre. Una bambina non la devi per forza picchiare, basta poco a non farla scappare per un uomo con ovvia forza nettamente maggiore.
Non so come ne potesse trarre un qualche piacere né avevo età per poter capire più nel profondo a cosa volesse arrivare. Nemmeno oggi so dire cosa spinga un uomo a provare attrattiva verso dei bambini. Conosco solo, di quei suoi momenti, una mano che obbligava pure la mia, lembi di pelle e di carne che il tatto infastidito di bambina poteva allora associare a carne cruda d'animale soltanto, ridicolamente. Conosco gli scoppi di sue risatine nervose appena cercavo di scapparne perché volevo andare altrove, a giocare, e pensavo che quello dovessi fare, l'impedirmelo intanto, i vestiti alzati o calati, rimessi a posto in fretta da lui stesso se capitava un imprevisto come una voce vicina e qualcuno in arrivo oppure riordinati da me alla bene meglio se riuscivo a trarmi fuori dalle sue grinfie e me ne correvo subito in presenza di terze persone, istintivamente.
Conosco quel giorno: la rabbia della mia voce e l'incredulità negli occhi di mia madre che non mise mai in dubbio quanto le confidai ed il suo rimanere allibita e incazzata pur senza farmene vivere una scenata pubblica in cui ritrovarmi protagonista quando non potevo esserne in grado senza sottopormi ad inevitabili conseguenze psicologiche ancora una volta pesanti dopo quelle che pure veniva a vivere lei, come madre, nello scoprire che sua figlia aveva fin ad allora già dovuto vivere quel tipo di situazioni a cui io ero in effetti fin a quel momento stata soggetta.
Ricordo la faccia tirata di un padre che viene a scoprire che suo padre usa mettere le mani addosso a sua figlia e la capacità di evitare di metterle lui addosso ad egli.
Ricordo anche che intervennero facendo in modo che non ci fossero mai più occasioni di rimanere sola con lui, anche per pochi minuti, ma che non affrontarono il fatto altrimenti.

Oggi, a 25 anni, io so che lo avrei denunciato a prescindere da qualsiasi altra cosa.
Fu debolezza la mia nel non dirlo o capirlo subito, nel non chiedere un procedimento di quel genere?
Fu debolezza quella dei miei genitori nello scegliere una via diversa motivandomene le ragioni?
Sarebbe stata debolezza effettivamente troppo forte quella di mia nonna, la quale non ultima a colpi di scena nella propria vita, di questo ne avrebbe troppo definitivamente patito, come sostenevano loro a giustificazione della scelta di non procedere in altro modo?
Debolezza grave, insopportabile e che mai giustificherò sicuramente è quella di un signore che sceglie di molestare sessualmente una bambina.
Dimostrazione di forza quella di scegliere di andare avanti, io, senza odio, senza far rimanere la mia vita incollata a quel dramma, a quello schifo che in alcuni attimi l'aveva coinvolta. Forza fu quella dei miei di fare altrettanto. Forza si può dire in qualche modo quella che ci mise lui nel non ripetersi più, pure aiutato dal non averne facilmente la possibilità grazie all'attenzione dei miei e comunque consapevole che forse un'altra volta non sarebbe passata.

Il messaggio che forse ho scelto di mettere dentro ogni mia parola è qualcosa che non è una condanna, quella se la diede dal solo nel gesto, ma una voglia di denuncia di quelle che sono mancate ai miei, ma che devono venir fuori sempre, in un modo o nell'altro, in situazioni pure difficili e ambigue che succede che si vivano e che sono sbagliate.

il pettirosso - gino paoli

il narcisista

Il narcisismo a livello individuale è caratterizzato da un esagerato investimento della propria immagine a spese del sè. I narcisisti sono più preoccupati di come appaiono che non di cosa sentono. Negano i sentimenti che contraddicono l'immagine che cercano. Agendo senza sentimenti tendono a essere seduttivi e manipolativi, aspirano a ottenere il potere e il controllo sugli altri. Sono egoisti e presi dai loro interessi, mancano dei veri valori del sè - cioè espressione e padronanza di sè, dignità, integrità. I narcisisti mancano del senso di sè che deriva dai sentimenti del corpo.

A livello culturale il narcisismo può essere visto come una perdita di valori umani.
La cultura stessa sopravvaluta l' 'immagine', e deve essere ritenuta narcisistica.

Nell'arco di quarant'anni è avvenuto un marcato cambiamento nei problemi della personalità. Le nevrosi dell'epoca scorsa rappresentate da sensi di colpa, ansie, fobie o ossessioni che prostravano l'individuo, non sono più comuni oggi. Ci sono invece più persone che non hanno emozioni, si sentono vuote, sono profondamente frustrate e insoddisfatte.

I narcisisti sono caratterizzati dalla mancanza di umanità. Non sentono la tragedia di una vita spesa a cercare di dimostrare il loro valore a un mondo indifferente.

Di fronte al pericolo di perderla, scopri cos'è la vita. Non avevi mai visto i fiori, prima, nè la luce del sole e i campi. Passi la vita a dimostrare che sei un uomo di successo.

In genere la follia è considerata una mancanza di contatto di un individuo con la realtà della sua cultura. Secondo questo criterio che ha una sua validità il narcisista che ha successo è ben lontano dall'essere folle. A meno che.... a meno che non ci sia qualcosa di folle nella sua cultura.
La frenesia non è forse un segno di pazzia?

I narcisisti vanno aiutati a essere in contatto con il proprio corpo, a recuperare i sentimenti soppressi e a riacquistare l'umanità perduta. Per fare questo occorre ridurre le rigidità che impediscono ai sentimenti e alle sensazioni di esprimersi.
La chiave della terapia è la comprensione.
Tutti i narcisisti hanno un bisogno disperato di qualcuno che li capisca. Da bambini non furono capiti dai genitori; non venivano considerati individui con dei sentimenti, non venivano rispettati in quanto esseri umani. Bisogna sentire la loro paura e conoscere l'intensità della loro lotta per difendere il proprio equilibrio in una situazione familiare che potrebbe condurre alla pazzia.


(Alexander Lowen - il narcisismo)

venerdì 11 dicembre 2009

Il respiro dei cani fa male? - evanescente

L'odore era forte di erba tagliata; la casa era quella forse ancora abitata da un mio cugino di secondo grado con cui da piccola guardavo allo sfinimento lo stesso cartone animato; le vie erano le mie strade di sempre corse o percorse camminando, da sola o accanto ad altri, compagni ad accompagnarmi veri o talvolta immaginati soltanto questi altri.

Tragitto che avrebbe dovuto puzzare d'abitudine ed ora mi dava invece ancora un profumo, quello di un prato chissà se bagnato. Erba piatta e corta. Appuntita. Ed adesso anche appuntata e nemmeno a matita.

Le rose nell'angolo del giardino grande dall'erba corta che girava tutt'attorno al palazzo le avevo notate per la prima volta, erano poche e alte e di colori scontati. Scopiazzati dalla primavera ormai andata.

http://it.netlog.com/go/explore/videos/videoid=...-

Avrei voluto guardarti per sempre, lì, nella mia cornice ricoperto dei miei odori, delle mie occhiate di lince gettate nello stesso panorama privo di vento in quell'attimo che si fermava sempre a metà quando m'accorgevo che in verità non c'eri.
Stavi dietro alla telecamera che m'ero sognata ci fosse, come fossi Truman o gossip.
Eri invece dentro alle tue di abitudini e dentr'ai tuoi paesaggi, tutte cose che - mi dicevi - "non conosci". E in effetti nemmanco te conobbi.
Però mi rimbalzavi in testa come metadone per le mie idee, una per ogni passo, una per ogni gesto. Una per ogni sasso.

I marciapiedi di Torino non sono puliti come vorrei, non posso specchiarmi e dunque avrei apprezzato quella tua videocamera per riguardarmi in faccia, riguardare i colori scontati delle rose, mandarti tutto in un pacco come potessi a quel punto viverlo davvero anche tu e sapere davvero di cosa ti raccontavo.
Non si possono mai raccontare i propri dipinti, così come non lo fa la natura come delitto verso il suo procrearsi. Ti nascosi tutta la mia impazienza di averti nei miei rimbalzi, una volta almeno, una volta soltanto, una volta non basta quasi mai.

Assapori la passione di un quadro quando lo fai tuo, nasce una familiarità che puoi sentire, ma difficilmente spiegare, spieghi le ali e voli dentro alla cornice con il colore nelle mani e la faccia sporca.
Non mi accorsi che correvo, i passi rimbombavano non so come perchè non ero in palestra e non giocavo a basket.
Ho tolto gli auricolari e sei comparso nell'intimità del mattino. Eri vicino, non credere, molto vicino. Io però non avevo bevuto e la notte avevo dormito. A me era rimasto in mano il gommino della matita e ci giocherellavo con le dita da chè s'era fatta chiara l'aria.
Abbiamo condiviso sbadigli in quell'aria e occhiate piene di sonno nel silenzio d'uno sguardo scocciato, avevamo visto entrambi quella luna piena di rosso nel buio trascorso e non ci siamo ugualmente detti niente. Appena un cenno d'intesa con qualche conoscente, uno sguardo. Quasi nemmeno.
Ma tu eri lì. Era troppo umida l'aria perchè tu non ci fossi davvero. Non parliamo della mia mano ad un certo punto sostanza pura di fresca brezza chè non c'era il mare e non aveva senso senza la tua su di essa.
Non c'erano onde se non quelle a me impercettibili di una musica ormai in pausa. Non c'era più voglia di stare a patire la stanchezza o sarebbe stato il giorno a farci soffrire la sua presenza, viva presenza.

Ti sei tolto le scarpe? - ti ho chiesto in confidenza.
Mi hai detto di no e mi sono data l'esempio da sola come mi succede ogni volta che la mia fantasia prevale sugli altri. Ho camminato scalza qualche metro e controllavo l'aiuola perchè la sera ci portano i cani. Tu guardavi me, un po' basito, guardavi in alto che era tutto bianco. Non un accenno di saluti formali e pure il cielo rimaneva pallido ogni volta a quell'intimo quadro.
Mi viene sempre voglia di colorarti e per questo vorrei conoscerti meglio - ti ho detto.
Mi hai guardato con quella faccia sempre un po' basita e gli occhiali scuri scivolati sugli occhi senza più una parola da parte della tua frenesia solita.
Mi coloreresti anche tu? - penso sempre che se ti esclamassi davvero ciò che penso, come ogni tanto d'altra parte faccio, tu mi prenderesti per affetta da qualche demenza, invece è solo la stessa solita solitaria impazienza. Si corre soli, ti ricordi.

Fai la lotta con un fantasma? mi hai raggelato allora. No, giocavo a prendermi la coda.

E nell'ombra dell'olmo è rimasta sulla sabbia la mia dedica per te, incisa con le zampe e con le zampe decifrala.



L'emozione nasce in modo strano dai contrasti forti, ciascuno la sviluppa con la sua sensibilità.
La commozione nasce quando non ti aspetti qualcosa.
La poesia non è interpretabile, non ha significato.
L'arte non è il tema, è come lo svolgi.
(Gino Paoli)

sei un'altra pepita colorata nell'odore forte del mio prato bagnato

http://it.netlog.com/go/explore/videos/videoid=...-

venerdì 4 dicembre 2009

Filtri da The in Casa Mad

Have you ever seen the rain - Creedence Clearwater Revival

Casa Pazza non è la Casa del Pazzo e nemmeno Casal dei Pazzi. Mi dicevano che c'ero già stata, ma io sapevo che non era così. E' in una zona che oramai conosco abbastanza per sapere, a memoria, che vorrei passeggiarci più a lungo. Desiderio di condividere vita. Non ha le pareti azzurre, ma blu. E una volta entrata mi dipinge pupille e capelli francesi delle arie blues di questa notte piovosa.
In mezzo alle pozzanghere di nervosismo che inumidiscono le caviglie quando non scegli di non esser capito, a Casa Pazza le cameriere sorridono e ti dicono che non sono bene accetti i bambini. Hanno un grembiule che sa di casa e spettinati capelli biondi a corolla del viso.
Casa Pazza, mi ricordi quelle follie che non vivo mai come il non voler dormire in un sacco a pelo d'inverno polacco. Viviamo tutti cullati nei nostri no posti davanti alle manie degli altri che sono curiose come lo è Casa Pazza. Non c'è bisogno di specchi o di asterischi per lo stato d'animo. Le maree si sanno e io d'altro canto sono vestita di bianco.
Casa Pazza ha sul palco una tenda verde con le facce e dietro c'è un muro, soltanto un muro: nessuno spazio per nascondersi e appoggiarsi dietro la tenda, sicuri di non essere visti, intenti a sbirciare i rumori della platea che ti aspetta; nessuno spazio per attorcigliarsi intorno al tessuto e venirne fuori facendo uno scherzo, a tutti; nessuno spazio per star dietro a provare, a stirarsi la giacca con le mani o a fare l'amore. Una tenda con le facce, non facce di bambini, ma maschere indiane e io, che di indiano ho giusto una coperta che porto appesa a sventolare in mezzo alle cose in cui credo e ogni tanto la stiro con le mani sul pavimento e mi addormento sopra cullata da ricordi sconvenienti, io, ho portato un burattino e lo tengo per dar forma alle mani e provare a capire se almeno così possono raccontare bugie o storie altre. Il mio burattino non lo appendo al soffitto con quelli di Casa Pazza che non potevo sapere nemmeno ne avesse finchè non li ho visti, tutti ai soffitti. Casa Pazza è uno di quei posti fatti apposta per me. Si appendono quadri, di bambini anche, disegnati. A Casa Pazza i cavalli sui muri sono banali. Io con la di me bambina e i miei burattini sopra la testa e per le mani sono un quadro. Messa lì, al muro. Un dettaglio di cui non t'accorgi quasi. Non mi appendo a nessuna giacca e nessun colore. Alle finestre non si vede nulla di fuori quando entri a Casa Pazza, ci sono gli aspiratori di foglie autunnali dalle strade che buttano aria sui vetri. Tra un po' lasceranno posto agli spalatori di neve. Le finestre, sì, le guardi.
Ma sono qui. Ti ricordo. Sono i miei giorni, i miei ricordi, le mie storie. Sono storie pazze come i miei pizzi strappati, tagliati, vestiti e decorati di me, con cui vado in giro e scrivo cose durante le musiche e le mostre degli altri. Egocentrica e permalosa.
I bambini a Casa Pazza li appendono alle pareti blu. Quando entri te lo dicono subito che ti prendi personalmente la responsabilità verso di loro, a me sembra strano perchè trovo questo di un'ovvietà che è arma di ricatto e penso alle pozzanghere lasciate fuori dove non sono giunta ad inzupparmi saltellando come in un film d'amore. Penso al riscatto che chiederebbero per farti andare, ma la porta a Casa Pazza te la tengono aperta. Ti lasciano il tempo di guardarti intorno e si accorgono di te; ti consigliano di rimanere, magari, dappresso l'uscita. Io la mia bambina la tengo con me quando s'addormenta e quando gioca a battere i pugnetti sul tavolo a tempo con lo stivale del cantante che fa la sua serata a Casa Pazza, stasera.
Prendere offesa il fatto di non conoscersi è cosa da pazzi quasi sempre.

Bruce Springsteen - Drive all night

Realtà e illusioni che vivo scombinate e scambiate si mescolano dentro al desiderio di condividere vita, dietro un drink non bevuto. La pioggia sì, bevuta, ma ora l'ho lasciata fuori, senza responsabilità.
Non mi nascondo dietro a tende o pretesti appesi ai soffitti. Mi trovi in questi sgangherati sguardi a far acqua da tutte le parti e ricordi dei tuoi spacciati per attenzione a saltar dentro e fuori schizzando ritratti che non sai o restare a guardare con uguale empatia ed un coraggio che qualche volta sa di asfissia.
Ancora una volta ti avrei voluto presente con me, quando ti guardi attorno e ti incanti mentre parli perchè chissà se pensi alle cose da dire o, secondo me no, ti crogioli dentro alle tue malinconie come mie, facendone immagini proprie; teatri di feste di piazza perchè la piazza anche se piccola serve a tutti per guardarne la cattedrale sola illuminata e per cantarci le canzoni dentro, con gli amici a fare corolla di te.
Casa Pazza è un posto, un pub, un mondo. Un mondo che non conoscerò mai abbastanza, un mondo in cui lascerò fantasie e possibili progetti. Una storia che non vivrò con lo stesso entusiasmo che metto per altri miei amori persi. E forse lei mi dedicava attenzioni rare nascoste da ossessioni spinte, forse mi guardava profondamente fin da quando sono entrata in lei, con tutte le sue facce che mi sono lasciata lì, a vestirmi addosso e mi han cercato gli occhi con interesse e provano a starmi vicine tra nervosismi e scontatezze scontrose. Non so se l'ho notato il colore delle pareti o se m'è venuto incontro. C'era. Ed era blu con in più le sfumature di quella piccola lanterna abbandonata su un tavolo a far d'atmosfera e tanti candelabri senza candele che potremmo scegliere e cercare e rimanerne abbindolati lasciando al muro solo le nostre ombre, appese e facendone burattini; potremmo guardare dentro ai laghi in cui si trasformano le pozzanghere, ovvie quanto la nostra responsabilità di non scegliere d'incontrarci e quella di espiare le nostre colpe senz'essere solo mazzi di carte. Io delle mie ho fatto barchetta e ci sono volute solo poche pieghe.
Desiderio di condividere vita.
Tu fai lo scemo senza sottotitoli e ieri il mio lo chiamavi regalo, ma non sai e presumibilmente non ti renderai conto mai che t'ho messo in mano le chiavi, tante di quelle chiavi tutte giuste. T'ho messo sotto scacco il re con serrature che hai intravisto qua e là nel sentiero in cui ci siamo sbirciati e si mischiano intuizioni e diffidenze anche perchè io gioco con realtà e illusioni scambiandole di continuo. E sono più nuda da vestita che da nuda. E sono inguaribilmente felice a modo mio e oramai profondamente commossa, stasera, per la teoria delle maree con cui era imprescindibile che cadessi a picco.
Resto in pigiama, qui, a Casa Pazza e mi fanno strano i semafori nella notte, quando esco e torno alle mie piogge adesso più quiete.
Non mi hai abbracciata, non ti ho abbracciato neanch'io; ad amare rischi di dividere troppo fino a perderti tutto. Ancora contraddizioni in cui faccio in modo tu mi possa confondere, ancora espiazioni da risolvere e raggomitolate, conflitti inutili tra inutilità compresse a dirsi nervosismi e sono permanenti tensioni personali ad incontrarsi e scontrarsi con le tue manie. La di me bambina però io la abbraccio sempre ed ha tutta un'identità sua di cui sono fiera ogni giorno. Ne faccio questione di proprietà: di significato, di linguaggi, di particolare virtù non accessoria che è dovere controllare stia bene e abbia aria necessaria come bambina di cui prenderti cura, premura. Ad amare rischi di dividere tutto fino a perderti troppo in una strada che conosci, a memoria, con le chiavi e - pozzanghere o no - saresti folle a girare vuoto e non verso casa dove
sto impazzendo, non te ne accorgi, perchè mi lasci sola.
Non ti perdi niente. Non ti perdi niente.
Se non te ne accorgi non ti perdi niente.
Anche quando mi hai chiesto se avevo bisogno di te, parlavi in verità per te.
Sta tutto in un dialogo che continuo a proporre a senso unico - semafori o no -
lo dico perchè non ci sono specchi incrinati nè inclinati qui.
Desiderio di condividere vita, cin cin.

15.51
h.n.
4 dicembre 2009

Federico Sirianni - Melodia per occhi stanchi
Jimi Hendrix - Hey baby

martedì 1 dicembre 2009

Occasioni e Occasioni

Poesia minimissima d'occasione anzi neppure perché non c'è nessuna occasione

«Con questa pioggia improvvisa che è venuta
ti serve mica un passaggio con la Panda
per andare al Circolo a sentire
Catalano e Gasparini?» - ecco il testo
semplicissimo dell'esse emme esse
che ti manderei in questo istante preciso
se solo avessi il tuo numero di telefono.

Carlo Molinaro


La patente ce l'ho da quando avevo 19 anni. La macchina la uso pochissimo, ma ce l'ho. Panda vecchio tipo. Usata solo in caso di vera necessità... Infatti poi sono andato in tram a sentire Catalano e Gasparini, non potendo dare un passaggio alla ragazza, non aveva senso prendere l'auto. Lei stasera non c'è venuta proprio.
Catalano e Gasparini sono andati bene, in quel posto un po' asettico e non tanto adatto al loro genere che è il Circolo dei Lettori, se la sono cavata bene.
Quando Catalano ha letto la poesia in cui gioca a scopa con Dio, che è secondo me bellissima a drammatica oltre che comica, una madama si è schifata e se ne è andata... Succede ancora, evidentemente, di épater les bourgeois. Questa la poesia: http://www.guidocatalano.it/?p=582
E Gasparini... quando ha raccontato, in un bel racconto, il suo amore di bambino di nove anni, mi sono accorto che è praticamente uguale al mio amore per la ragazza di cui non ho il numero di telefono. L'amore resta uguale... Altri fattori invece cambiano, ma vabbè.

Carlo Molinaro



La poesia la conosco. No, non dico quella di Catalano, cioè sì, anche quella, ma io ora dico la poesia che si crea quando in quelle serate lì che c'è un po' di pioggia, ma si esce lo stesso e si và, che so io, a un reading di Catalano e Gasparini per dire. Per dire, chè Gasparini non so chi sia e uno direbbe che se è con Guido è bravo di sicuro, ma non si può mai sapere perchè delle volte ci son quegli scherzi che il Catalano e il Federico si mettono a far serata coi Santabarba, vabbeh. Dicevo che ora se tu immagini che io sta critica feroce ai Santabarba non l'ho fatta e torni in quell'atmosfera lì che ti dicevo e che tu in fin dei conti hai raccontata, beh ecco, in quelle situazioni lì non c'è scampo per i pensieri e se tu stai pensando a qualcuno in particolare capita, ci puoi scommettere, che anche un discorso del Gasparini che non so chi è e non so che ha detto, beh capita in quelle cose lì che il tuo pensiero speciale te lo ritira tutto in testa e ci fa i decori sulla faccia e sui contorni dell'immagine che hai in testa. Ci fa i contorni con la voce pure se il Gasparini non so che voce c'ha, ma non importa perchè qui l'importante, la faccenda veramente fondamentale è che hai toppato un termine. Il Circolo dei Lettori non è affatto asettico, è catartico.
H.N.

Basta una sera sola a fare buio un giorno

Io credo che se uno ti ama, a prescindere che tu non lo vuoi, dovrebbe farti piacere. all'incirca.

A essere umili e presuntuosi allo stesso tempo ci vuole il talento. Io, umilmente, ce l'ho.
Amo pure la sincerità ed onestà intellettuale.

Gozzano mi pare ebbe casa ad Agliè. Mi pare perchè mi pare che ad Agliè fosse casa sua che mio padre quando 'era mio padre' insieme a mia madre quando eravamo una famiglia di cinque uniti mi portarono a vedere.
Mi ricordo che c'erano i campi e forse pure le pannocchie, ma le pannocchie non sono sicura. Però ho colto i fiori, passando.

Io ieri sera per le prime tre canzoni stavo con la faccia su un libro che mi è stato regalato da un Carlo che ho incontrato per la prima volta lì, quella sera. Cioè ieri.
Prima lo avevo conosciuto virtuale perchè è amico di miei amici.
Scrive le poesie, Carlo e il libro è di poesie. Dice che ha scritto anche un romanzo che si è scambiato con una mia conoscenza con cui ho fatto l'intervista a Vasco e Vasco mi ha detto che ero professionale e lei fan, anche se anche io sono fan.
Beh, io ero ieri sera nel pub, con la testa sul libro di poesie, ma non leggevo.
Non sapevo neanche che la mia conoscenza scriveva i romanzi, questo nei giorni passati e tanto meno che se li scambiasse con Carlo che ho incontrato solo ieri. La mia conoscenza che poi si chiama Francesca io non la vedo più da tanto. Condividemmo giusto poco più che l'intervista.

Comunque il romanzo non ce l'ho, ma ieri sera ho contato nel pub il numero di poesie del libro di Carlo di 516 pagine (che mi ha detto 516, ma non ho mica controllato ancora, però le poesie lui non lo sapeva il numero perchè non le ha contate nè numerate). Ho messo un numero di fianco o sopra o intorno a ogni titolo di poesia e son diventate 446.

Non so quante mattine ci vogliono per fare un giorno luminoso. Qui c'è luce e io ho abbassato le tapparelle del soggiorno.

Le poesie 446, ieri. Anche oggi credo. Le pagine 588, mi ha fregato.
Anche se tra tutti i fogli bianchi o coi titoli l'introduzione parte a pagina 9.
Se togli l'introduzione si va a pagina 25... che però è una pagina di titolo.
La prima poesia è a pagina 29 però credo che anche i titoli e l'introduzione son pagine da considerarsi di un libro. Però io ne avrei messe di meno.
Anche di mattine per fare un giorno luminoso ne metterei di meno.
Forse son tirchia.
Ci pensi però numerare 446 poesie per le prime due canzoni di un primo arrivo a un pub in cui entravo per la prima volta e a quel primo incontro? Credo fosse il suo primo libro, questo, di poesie. Carlo ha 56 anni e ci sono le poesie da quando aveva 16 anni fino al 2006.
Carlo in quel pub non era la prima volta che ci entrava, a differenza mia. Ci ha conosciuto lì una tipa che si chiama Eva e che lo ha fatto innamorare. Io Eva adesso ce l'ho su internet negli amici virtuali. Ha la mia età Eva, più o meno. Io 26. Lei l'anno poi vado a vedere.

Francesca comunque non centra niente con gli amici di amici che mi hanno fatto avere Carlo negli amici virtuali che poi l'ho incontrato ieri proprio con quegli amici, allo Sbarco, il pub, per la prima volta. Per la prima volta sia il pub che Carlo. Per me. Per Eva no. Per Carlo il pub nemmeno, io sì. A parte virtuale.
Eva lo ha fatto innamorare, ma - dice - non è innamorata.
Eva non c'era.
Eva virtuale non è amica di Carlo, non più. Degli amici che mi han fatto incontrare Carlo virtuale quando poi eravamo tutti davvero nel pub ieri sera, sì, è amica. Gli altri non era la prima volta nel pub, nè col Carlo, nè con me, nè con Eva. Eva non c'era. Non sarebbe stata la prima volta neanche per lei in un modo o nell'altro, questo. 'Non c'è stata' altre volte, per Carlo tante. Anche per gli altri credo. Io non l'ho conosciuta, magari, neanche quando c'era. Carlo e io, per esempio, è capitato varie volte che ci si era tutti e due dagli amici, ma non lo si sapeva, neanche nel virtuale perchè si è diventati amici da poco anche lì.
Al primo incontro a Carlo Eva gli ha chiesto il numero di scarpe. Io ho fatto finta di e ho riso. Gli ho dato però il numero delle sue poesie nel libro. Si sono conosciuti col numero di scarpe sul divano dove eravamo seduti Carlo, Andrea ed io ieri sera, Carlo ed Eva. Carlo era per la seconda volta sul posto della prima. Andrea era al posto di Eva. Dall'altra parte della stanza c'era l'ex fidanzato di Eva, ho saputo, ieri sera. Me l'ha scritto Carlo. Ieri sera dopo aver contato le poesie ho scritto anche io come anche Carlo. Era stata una idea mia nel virtuale.
Eva adesso, che noi sappiamo, non sta con Carlo, ma neanche con Adamo.
Non c'era, pare, ieri sera, Eva.
Carlo di scarpe porta il 45.
Io di poesie ne ho contate 400 di più.
Ora è ancora mattina. Pure luminosa. Il giorno, meno.

Una cosa da dire ce l'ho e la dico: Guido stava facendo lo stesso spettacolo di Federico. Son loro gli amici. Io e Andrea e Nadi quando possiamo andiamo e recentemente, così come nel corso del tempo, abbiamo potuto svariate volte. Rivedere tante volte nel corso del tempo e settimanalmente uno spettacolo, se lo spettacolo è praticamente sempre lo stesso, può risultare ripetitivo. Forse. A me no perchè già solo cambiando il locale e la serata e la stagione o anche solo il clima e il mio stato d'animo e quello che trasmettono di loro gli artisti fosse pure con una maschera o un vestito o un vino mi cambia l'emozione ed è quella (tipo Blowing in the wind questa volta) che trattengo di ogni serata che si rispetti, ma io sono strana (e scrivo troppo) (per esempio mi piace vedere come Guido, che nel libro suo di poesie che io ho dagli anni è molto molto più malinconico di così e lo era nei primi suoi reading che ho ascoltato, poi si sia trasformato e m'incuriosisce scoprire se dipende dall'inverno). E' altra storia, insomma.
Andrea, scherzosamente, ha espresso invece la necessità - visto che gli tocca venire al Grande Fresco, lo spettacolo, una volta a settimana (in quest'ultima settimana per esempio) o comunque abbastanza sovente - di sentire cose nuove. Guido, sapendolo, ha originalizzato il suo reading e di molto in questa serata di ieri. Tutto questo sproloquio (scrivo veramente troppo) e faccio i miei complimenti a Guido.
E' bello che un artista e più generalmente un uomo, seppure un po' basso - è da ammettere, abbia questo punto di vista aperto, sempre, al suo pubblico e più generalmente alle persone che lo seguono, magari sovente. E magari gli dicono che è tempo di originalizzare un po' la scelta di poesie dello spettacolo non solo - almeno da parte mia che ho fatto da portavoce in qualche modo (e faccio veramente tanto, troppo per alcuni, ma non per Guido) - per sè. Insomma non si capisce (scrivo 'così così' 8 volte su 10), però Guido, grazie.

Anche a Carlo ho detto grazie, per aver inchiodato allo schermo quelli di ieri sera ed altri momenti degli amici artisti. I miei video fan schifo 10 volte su 10, quindi grazie. Stavo cercando di fare una foto all'inizio del suo video (chè sono protagonista pure nel video, ti pareva, io 'ci sono' troppo), ma Federico non sta un attimo fermo, delle volte. Delle altre io mi dimentico la fotocamera e così, pur andando sovente, nel corso degli anni, non ho quasi alcuna foto di lui e nessuna insieme. Anche perchè le foto in posa non mi piacciono tanto. Sono strana, pubblico troppo, madonna se pubblico troppo.
Io di libri mai.

Bellissimo il pezzo alla fisarmonica di Guido.
Vito, però è Vito. Vito suona il cajon. Ieri non c'era. Vito è un amico che non vedo da un po' tanto. Mi manca credo più o meno come a Carlo manca Eva. Solo che non si può contare, la mancanza, come le poesie.
E Blowing in the wind - cantata così come l'ha cantata Federico, ieri sera, nel pub Lo Sbarco, è Blowing in the wind. Vedi com'è? era divertente, di solito è il clou dello spettacolo quel tipo di pezzi, lo è stato pure secondo me il clou, ma io durante Blowing in the wind non ridevo molto ieri sera. Forse gli occhi, non so. Comunque, di certo, in quel momento erano malinconici il giusto. Ma io sono strana, pubblico troppo e, cazzo, scrivo veramente male tante volte. Tipo questa.

Specie per chi non leggerà, come Federico.
Specie perchè il commento a un video è il commento al video, prima di tutto e per tale lo si dovrebbe prendere.
Federico mi legge una volta ogni tanto, forse una-due volte su 10. Federico ieri sera mi ha detto che scrivo 'così così' 8 volte su 10 e che scrivo e che pubblico tanto, troppo. Mi ha detto che me lo dice perchè so scrivere. Federico, gli ho detto, ma un blog è un blog. Uno scherzo è uno scherzo.
A Federico, un'altra sera della stessa settimana di ieri (ma solo se conti che le settimane partono da venerdì, tipo), dopo lo spettacolo a cui Andre e io e Nadine andiamo diciamo sovente, avevo consegnato in mano una cosa che avevo scritto (scrivo veramente tanto) e si è piegato i fogli di carta e se li è messi nella tasca. Poi, a casa, il giorno dopo, si è quasi commosso e mezz'ora dopo me l'ha detto. 'Non sono mai di molte parole specialmente quando mi chiedono di leggere o ascoltare qualcosa', mi ha detto, pure.

(e dire che ieri sera in quella sala non ero nemmeno la più permalosa ;))

Su una cosa sono d'accordo con Andrea comunque anche dal mio punto di vista: facciamo un appello, una petizione, raccogliamo le firme,... il Grande Fresco di venerdì sera! chè stamattina siamo come reduci e Andrea ha dormito sì e no 4,5 ore, io più o meno pure (sfalsate di mezz'ora), Carlo ne ha 4 e gli altri non so. Anche per Federico che stasera suona di nuovo (ma non ci vado chè ci vado troppo e Andrea dice che è troppo lontano e che comunque stasera si riposa).
Quindi IL GRANDE FRESCO A TORINO DI VENERDI' SERA! Io la creo la petizione! (no, io creo troppo) così il venerdì mattina non mi devo lavare tutti i piatti con l'acqua fredda e 4,5 ore di sonno in corpo che sguazzano nel vodka&tonic di ieri sera, freddo.

(Se poi lor signori vogliono venire a Ciriè venissero in qualsiasi giorno e pure tutti i giorni, chè li ci posso andare a piedi :p e io non mi stranisco. Son strana, l'ho detto mi pare. E scrivo decisamente troppo e male: con questo la media passa a 9 volte su 10).

Mi piace la notte, devo dire. Che sia luminosa di stelle o fresca, che sia.

Me la vado a cercare.
E ora ho 4,5 ore di sonno in corpo insieme a un vodka-tonic e a tanti momenti e una Blowing in the wind impensata e bellissima.
Neanche che mi dicessi che scrivo 'così così' 8 volte su 10 lo pensavo. Neanche che mi dicessi che ti eri quasi commosso lo pensavo. Eppure tutti e tre le volte mi si stavano quasi per rinfrescare gli occhi, mi sa. Eppur triste, un po'. Pure se è stato bello. In parte però triste.
Sono troppo permalosa mi sa. Scrivo troppo. Pubblico troppo. Faccio troppe foto pure se non a te. M'interesso troppo. Penso troppo. Vivo. E non me ne fotto abbastanza. Mai.
Tu di come sto magari sì.
Però la malinconia degli occhi ce l'avevi pure tu ieri sera nello Sbarco e i bei momenti erano lì, 'dimmi chi sei' ti chiedevo a quattr'occhi freschi. Non hai risposto, non so se pensavi, se pensavi ad altro o se sapevi. Io so che la malinconia negli occhi ce l'avevi e gli occhi ridevano insieme. Come me quando ho scritto. Come te quando hai letto, quando hai letto. Malinconia negli occhi della permalosa quando ti ho chiesto di 'dimmi chi sei' e sei stato zitto ed era pure nei tuoi; malinconia negli occhi della permalosa quando hai cantato Blowing in the wind ed io son stata zitta; malinconia negli occhi della permalosa nei bei momenti quando parliamo e ti frego il bicchiere di vodka-tonic dopo che ho finito il mio e un po' m'impiastriccia perchè a te han dato il bicchiere di plastica davvero ieri sera e a me il vetro.
La sera del foglio in tasca hai spaccato un bicchiere di vetro per sbaglio. E ci siamo messi a ridere tutti. Poi dopo il foglio in tasca mi hai abbracciata e avevo un vestito corto ed ero bella. Sono bella nei miei scritti 'così così' e in quelli che ti fanno quasi commuovere.
Ieri sera t'è caduto a terra il bicchiere di plastica. Hai lerciato il pavimento del secondo pub in una settimana. Ieri sera gli hai dato un calcio, al vetro l'altra volta no. Ieri sera mentre parlavamo hai dato un finto calcio anche a me mentre facevo finta di essere offesa. Sono bella anche quando tu non lo sai e non mi dici 'dimmi chi sei'. Sono belli i bei momenti, come anche ieri sera. I bei momenti però pure con Guido e con Matteo che è il chitarrista, ecco.

Ieri mi hai detto anche che di quelli che vengono tante volte ne hai tanti. Questa forse è stata la più triste, più vera e più allegra. Volevi dire che non sentirai la mia mancanza se non ci sono?
A me fa piacere se mi leggi, anche per scherzo, fa piacere se suoni e io ci sono, ma non è detto che sia reciproco. Anzi. Tu perchè non lo dici? perchè ti fa comodo o per un perbenismo che, sbaglierò, non t'appartiene?

Ieri mi hai detto anche, e ripetuto tante volte dopo la prima, che mi dicevi che scrivo tanto troppo perchè sono una che sa scrivere, sono una che sì.

Comunque io quando vengo a sentirti, ecco, è perchè quando sento 'nel mio quartiere' nel mio quartiere, a casa, nel cd che mi hai regalato, ho gli stessi brividi di quando ti sei trovato tra la mia infanzia e le mie storie, sprovveduto, senza conoscerle del tutto, ma ritrovandoti piantato dentro ad una storia da qualcun altro che con quella storia, comunque, vive la stessa emozione. O simile. O una. Mi dirai che le emozioni le provano in tanti - troppi? Ti dirò che dal mio punto di vista no.
E comunque vaffanculo. Dopo tutto. Che per te non conta niente. E ok.

Mi delude che tu certe urgenze dovresti saperle al di là di tutte le stronzate, non che non credi io sia bella.

Il fatto che io, permalosamente, ci sia rimasta male e te stai zitto è già una risposta, comunque. Ciao e scusa, se ho scritto tanto.
Troppo.

Ho ritmi diversi dai tuoi, ti ho ripetuto invece io. Non mi hai prestato attenzione su quello e sugli occhi, ieri sera, allo Sbarco.

Il Grande Fresco allo "Sbarco", in via Pellico zero a Torino, la sera del 19 novembre 2009. Sul palco, Guido Catalano, Federico Sirianni, Matteo Negrin e i Santa Barba.


Il Grande Fresco alla Taverna dei Mercanti a Torino in Via Santa Chiara 13 la sera del 13 novembre 2009.

lunedì 30 novembre 2009

Biglietto per Kukuwok

Hold on - tom waits

Ci vivrò con l'uomo coi rasta. Sarà una casa con tante porte e nessuna piscina; ci sarà una cantina col vino e puzza d'umidità senza topi. Percezione di fresco, ma senza topi a ballare. Ci metterò un tavolo bordeaux che s'intoni con la camicia vinaccia ed il mio vestito viola e ci sarà un biliardo per imparare a giocare. Appoggiata al biliardo non farò sesso banale e i bicchieri di whisky saranno al loro posto intanto che, palleggiando palle in buca, scriveremo le mie favole senza rospi e la ragazza dal cappello francese sorriderà lo stesso battendo le mani.

Kukuwok è una località che il suo fiume non taglia, la accompagna girandoci attorno e attorcigliandosi un poco. A Kukuwok i pesci non sono messi lì per caso, ma nemmeno per scelta o volontà di qualcuno, se non dei pesci. La scelta è quella dei pescatori che si ritrovano alle cinque di mattina, tre volte a settimana, nelle loro solitudini ai lati del fiume e pescano insieme. I pescatori sono soli con la musica del loro fiume, ma si guardano e condividono intimità.

Io penso ai pescatori di Kukuwok appoggiata allo schienale dei sedili posteriori di un'auto non mia che viaggia in avanti e curva ogni tanto in mezzo alla nebbia, nel buio. Chissà se a Kukuwok ci saranno, più tardi, i suonatori di fisarmonica. Chissà se sono gli stessi che portano le rose dentro ai bar la sera.
Al bancone di un bar di Kukuwok cosa ordinerei?

I tipi del karoke ai lati delle strade delle località balneari tipici come un piatto da mangiare seduti al ristorante con l'insegna incrociata dallo sguardo alla ricerca, non ci sono a Kukuwok. No. Se guardi a lato, mentre viaggi appeso agli sfondi filmati dal finestrino di un'auto non tua, trovi piazzole di sosta per la tua solitudine e dentro venditori di frutta a barcamenarsi tra il freddo e le cassette di mandarini e arance. Oggi ne ho comprate quattro, scorta per la guerra. Ci sarà carestia di risorse, ci sarà epidemia di questi occhi sporchi.
Ai semafori gli strilloni non gridano, inchiodati alla luce del primo mattino e silenziosamente girano con nelle mani coi guanti giornali che non hanno letto, donne a casa ad aspettarli, scaldandoglielo. Scriviamo tutti la storia. Gli strilloni girano tra le auto con dentro gli uomini in attesa di ripartenza che pensano. All'attesa di un semaforo verde di Kukuwok cosa penserei, io?

Viaggiamo senza traffico in questa Kukuwok che mi dispera e sperpera ragionamenti come rotolano le cartacce e lattine, ai lati, rotolate ai lati, sotto gli scalini dei marciapiedi su cui camminano le mie normali immaginazioni. Scalini su cui cammino tutt'ora da acrobata, se capita.

Serve l'attesa? mi serve la fuga per amarti?
Il farmacista di Kukuwok vende colori e regala sorrisi e abbracci. Sì, io vado lì col mal di testa e lui mi propone quasi ghignante un bel verde intenso.
Esco con la faccia stupita e, salito lo scalino che mi riporta sulla strada, riguardo il nome grigio ad illuminarsi fisso come un faro, non ho sbagliato e con le mani in tasca mi dedico quattro passi sotto il viale alberato. Poi sotto il portico, superata la ghiaia di cui mi porterò qualche sassolino a casa incastrato alla suola delle scarpe. Sotto l'arco, proprio all'angolo in cui la gente della piazza che ha deciso il mio percorso s'immette come fiume nella via della targa vecchia, c'è una banca. A Kukuwok in banca ti offrono dispetti senza interessi.
Ripenso alla farmacia; non so se abitando terrei una scheda anche qui per segnarmi quante volte ci vado. Gli scontrini li conserverei lo stesso: sono codici con cui scarichi poesie a fine mese.

Non è piccola Kukuwok, eppure non c'è la confusione cittadina di sera. Se t'affacci alla finestra e guardi avanti senti piccole voci che fanno i capricci e forse flebili suoni di piatti e posate. L'odore di benzina e il profumo d'inverno che arriva anche qui.
Sento dire: "tieni, cara, la meraviglia" ed è troppo strano anche per sembrarmi ipocrisia. Mi domando se si tratti di raccomandazione puntuale o regalo di un premesso natale con le luci già ad abbagliare le menti sui doni da inventare, ma Moro m'ha insegnato come vanno a finire queste storie e non ho, d'altra parte, idea di dove siano finiti i miei stivali di gomma per andare a sguazzare nelle pozzanghere. O magari a trovare i pescatori e farmi insegnare come si fa a credere ancora che nel fiume ci siano pesci e che una volta cotti a punto siano anche buoni.

Passano le stagioni ogni anno anche quando fanno confusione tra loro o sono sempre inquinate dagli uomini. Passa tutto col tempo, quanti uomini se lo ripetono e quanti vivono col disperato tentativo di non farlo passare. Sarebbe una bella partita al tiro alla fine, finirebbero tutti con la corda al collo come cappio, come accalappiasogni o illusioni, tutto speso in contraddizioni.

Ti sto scrivendo una lettera d'amore, uomo coi rasta. Te la scrivo appoggiata alle arance. Mettiamo su quel tavolo da biliardo, dai. Che c'entra. Ci sono tante porte nella casa con la cantina. Una giusta per noi la troviamo. Sì, lo so, che t'ho incrociato per caso, con lo sguardo che fugava e tu non sai nemmeno, ma il tempo passa.
E io scrivo sempre le mie lettere d'amore ad indirizzi sconosciuti. Tu no?
A kukuwok lo fanno in tanti di più di me sola.
Ti scrivo:

Who you are - tom waits

"Trattami come un libro, fatto di parole e immagini e copertine spesse a non rovinare le pagine pur rileggendole e portandosi appresso. Capiscimi come un libro, nella mia natura, ti sia sufficiente. Separa le parole dalle ore vissute insieme e un po' piangi perchè non puoi trascorrere il tempo di quella sera con me. Nudi, a lavarsi, col nostro gettone in mano per i momenti liberi che ci siamo regalati. Ricchi. Ricchi da costruire una casa grande con cantina e odori. Uomo coi rasta, non mi vivere come una bicicletta, non funziono uguale ad un'altra. Non passeremo mai quella nostra sera, non mi ameresti più se succedesse. Tu non fuggi davanti ad un libro che t'interessa eppure ti senti tccato più che dai miei occhi malinconici che non vedi. E ti viene da piangere ora perchè non mi vedi gli occhi, non puoi che immaginarti. Se fossi lì ogni sera comunque non ti accorgeresti che piangono i miei.
Il libro ti porterà il bacio che racconto e magari per un altro. Ne sentirai l'emozione e lo vivrai più dei miei occhi di malinconia pieni di pagine lette e scritte. E viste. Ogni giorno che ti vivo accanto, a un passo, a un tocco, a un soffio.
Serve la distanza? Serve a proteggerti la copertina? no, per proteggerti da quei venti invernali e da quei freschi devi viverli, metterteli in casa e avere gli occhi che ne fanno specchio che non dovrai comprare nè veder sempre giovane. Ed è allora che sarai uomo ed in quella tristezza ti sarò solidale come maglione che conosci a memoria, come forma d'amore.
Se fossi anche stasera lì nella cattedrale in cui t'ho incontrato, mi nasconderei dietro un pezzo d'un tuo braccio, mi prenderei un po' di calore. Gesti strani i miei. Automatismi selvaggi della mia natura. C'è un limite di caratteri, di battute, di amici, di inviti e non lo voglio sapere, non lo riesco a capire. Vorrei sapessimo recitare con gli occhi e avere Cristo che ci guarda le spalle e non ride un po' in tanti, un po' più di ora.
Partiamo tutti per Kukuwok, tutti quanti. Pavia non l'ho visitata, ma partire su un treno a casaccio è cosa diversa dall'inventarsi un posto sullo stesso o immaginarsi un bacio e farlo in un libro di fotografie da scriverci alle spalle al posto d'un Cristo dipinto. Dipingere un vetro e farci una cattedrale è cosa diversa dall'esserci stati dentro e aver guardato il colore o attraverso. Kukuwok è situata in uno spazio che accoglie un mondo proprio, mentale, interiore, unico e solo, che non tutti sentiamo coraggio di vivere, di scrivere e responsabilità di cercare.
Il biglietto l'ho stampato e vidimato io in questa lettera a te, in questa piccola cattedrale dopo che ti ho guardato aggiustare i volumi del mixer intanto che regalavano il rosone.
Ho il cappello francese e lo sguardo che non spiega, non mi sono accorta se mi hai vista. Ho raccolto il suono delle campane di tutte le ore del giorno, oggi e te l'ho riproposto tra le volte di fumo delle sigarette non accese per non dar dispiacere, per non infastidire. Quelle di cui però si mantiene la voglia. Rispetto e libertà sono contraddittori come lo è stato guardarti ed essere interessata all'altare della cattedrale. Tu, in disparte, a giocare a nascondino da solo, dietro la colonna. Non ti ho dato la lettera per non darti fastidio, mentre resto in silenzio ogni giorno con una parola in più da regalare ai fogli, da delegare ai figli. E lo sai che non lo farò mai davvero, lo hai capito fin da adesso, lo sai che io non ci riesco, lo sai quanto mi fa male questo.
Atroce distacco che non provo da questo eterno vivere in stanze d'albergo del mio capo scosso e dei miei capelli sciolti o agghindati di una pinza infilata a casaccio come tiene i fogli di lettere da arredarci una cantina in una casa affittata al costo d'un regalo, dentro una località che non esiste, che è uno sbaglio surreale in stazione, mentre col brusio che ha ogni stazione e di cui non tutti s'accorgono e che a non tutti piace, aspetti di sapere il binario per la tua destinazione. Uomo che con i rasta t'accompagni in stazione con tutti i tuoi volumi nella testa adesso scombinati in maniera diversa. Capelli miei sciolti sullo schienale del sedile posteriore dell'auto non mia ad accarezzarmi l'animo e il capo e farti vedere gli intrecci al posto delle tue mani. Arrota, arriccia, arrovellati, accalorati sotto un pezzo di braccio, accavallati ai suoni della cattedrale e dì qualcosa perchè duri ancora un po' questo concerto di archi.
Spiccio è un fumetto che non hai ancora letto, l'ho inventato io e siamo, a Kukuwok, tanti di più di quelli che non immagineresti adesso. Alza lo sguardo, uomo coi rasta, togliti per un attimo quella malinconia dagli occhi, riconoscimi chè ti sono accanto. E' tutto in un accento diverso, in una località che abbiamo immaginato uguale, in un orizzonte che ci sta ad aspettare. Ma il tempo passa.
Tremenda voglia di appoggiarti la testa alla spalla, amore sconosciuto per qualche tempo come la sigaretta, che sei qui a un passo, un soffio, anche quando ti penso tra palco e platea dove mi trovo sempre un pezzo. Capita a Kukuwok di trovarsi ai piedi un cartoncino per portarlo a casa e completare il puzzle. Ieri il mio era rosso, ho intuito che l'immagine finale debba essere un arcobaleno banale, una serenità sostanziale, una speranza per una pioggia meno o più fredda a seconda del calore e dei gusti e della libertà individuale di viverla o guardarla dal vetro, appesi a finestrini e finestre e rosoni da cui sbirciare la vita. Platea e palco uguali per me, con te. So che ci sarebbe la complicità tale per un viaggio a Kukuwok, insieme, insieme come pescatori s'intende. La vedo nell'aria anche ora che non ci siamo incrociati di faccia, anche ora che non ci sei e forse ti confondo e sfocando la tua immagine trovo quella d'un altra bicicletta che dovrei pedalare in un viale alberato di quelli che amo, con la ghiaia e il portico di lato."

Si mischiano nella nebbia le idee di una solitudine obbligata e quella dello spirito di unione solidale che mi dà quella consapevolezza di essere dello stesso gir di giostra. Pure se le mie parole quando sento le tue mi sembrano accostate male, pure se non ti riconoscerai nel mio sguardo su di te.

Ogni Kukuwok nasce da una delle nostre deviazioni mentali a cui attacchiamo nomi come figli. Folli, com'è folle qualche figlio, com'è folle il sapere di non essere sola ogni volta che entro nella mia personale cattedrale incrociando il contatto con qualcuno come l'uomo coi rasta. E lo sappiamo quasi tutti, quando sposiamo idee, immagini, speranze, progetti, senza contratti, persone e affetti, come si fa a Kukuwok dove si mettono sull'altare i pensieri con un Cristo qualsiasi a guardargli le spalle, noi stessi. Si dice che quando si guarda una stella cometa, ma facciamo pure un arcobaleno, si esprima un desiderio. Il mio desiderio di natale in questa pioggia sottile che piove da sabato, è che ci siano alcuni abitanti in più per Kukuwok, qualcuno più di ora, che ce lo si dica con una lettera da tenere sotto braccio e che sarà una sorpresa. Che si guardi un po' di più alla finestra della propria casa con cantina, della propria cattedrale, che ci s'impegni l'attenzione, con interessi, per accorgersi di quando il reggiseno azzurro è appeso fuori dal vetro di fronte a dondolare sul filo come fosse un acrobata dentro a un cielo pieno di azzurri come lui che ci saran voluti chissà quanti tubetti a dipingerlo. Con le personali solitudini, come pescatori sul fiume di Kukuwok che all'amo hanno arte e pescano altro di bello.

Senza far rumore - Daniele Silvestri

domenica 29 novembre 2009

Come se lo disturbasse

Dovevo andare ad una riunione quella sera. Era, anzi, la prima riunione del meetup per me e sarebbe stato il mio benvenuto perchè, invece, sul forum, scrivevo già da diversi giorni e mi ero già fatta riconoscere da molti.
Ho fatto per partire con nelle mani le stampe delle pagine di cui avremmo dovuto disquisire quella sera. Sono andata dall'ufficio di mia mamma a casa dei miei nonni, un isolato piu avanti, tutta contenta perchè iniziavo da lì a poco un'avventura nuova.
Per quei pochi passi... ogni tanto li ho contati e sono meno di duecento.. mi sono iniziata a sentire stranamente poco bene. Mi faceva male respirare, mi faceva male all'altezza del collo, ma dentro, ho pensato a un colpo di freddo e non volevo farmi rovinare i programmi da uno stupido malore del momento che non avevo mai neanche avuto prima. Poi pure quando sto male io reagisco abbastanza cosi, quindi!
Arrivata da mio nonno per cenare e poi partire col pullman, mi son sentita sempre peggio anzichè sentirmi maggiormente ristorata dal caldo della casa.
Nel giro di poco ero su una poltrona nello studio di mio nonno, senza neanche essermi ancora tolta del tutto la giacca, con evidenti difficoltà di respirazione. Sono stata ancora peggio via via e mi sono pure spaventata, fra l'altro, forse per la novità (ma di solito le novità mi attraggono anche quindi credo fosse più perchè non è bello ritrovarti che non sai cos'hai e sai solo che non riesci a respirare sempre più). I miei nonni han chiamato mia mamma e i miei zii che erano lì han cercato di chiedermi cosa mi sentissi, ma non riuscivo a respirare, figuriamoci a parlare.
Credo mi sia uscita dagli occhi qualche lacrima, ma non ne sono certa.
Mia madre ha telefonato alla guardia medica e ad una farmacia di fiducia che faceva il turno di notte.
La guardia medica ha detto di portarmi immediatamente in ospedale che poteva anche essere molto grave. I miei amici del meetup erano stati avvertiti da me per sms all'inizio quando ancora non stavo cosi tanto male e ora mi continuavano ad arrivare telefonate e sms.... mi aveva fatto piacere, poi, scoprire che c'era chi già si era preoccupato per me, seppur relativamente e che persino in riunione si erano passati un po' la notizia e leggermente allarmati al punto da cercarmi per chiedermi come stessi e avere rassicurazioni sulla mia salute.
Dopo un po' che non riesci a respirare e lo fai con difficoltà e fatica si crea una condizione fisica tale che sembri uscito da una pesante broncopolmonite di colpo (faccio sto esempio perchè la broncopolmonite ce l'ho avuta e pure grave da piccola per ben due volte ed è l'unica cosa che mi viene comoda a spiegare le mie condizioni di quella sera dopo ormai ore, almeno un paio, che stavo cosi).
Siamo quindi andati in un ospedale lì vicino e dopo le prime visite mi mandarono nell'ambulatorio previsto per me. Non ricordo neanche che reparto. Ricordo un medico che a definirlo tale mi viene l'orticaria perchè un medico dev'essere innanzituttto un uomo, è imprescindibile.
Sto deficiente, evidentemente abituato a quell'ora a vedersi arrivare gente con il genere di problemi che mi appiccicò addosso, mi iniziò a fare domande, legittime, per capire. Peccato che notai da subito una strana reticenza nell'ascoltare le risposte come se quello che dicevo non lo soddisfacesse. Mi interrompeva persino proprio laddove glispiegavo l'iter con cui era peggiorato il mio stato che, per altro, non era migliorato nel frattempo quindi faticavo non poco a parlare e si mostrava nervoso pure per questo. Come se lo disturbasse (a lui?!).
L'ultima volta che mi interruppe sbottò con una sorta di sfogo a metà tra il ridicolo e il patetIco se non fosse che ero sotto le sue grinfie. Negli ospedali e con la medicina si gioca una partita squilibrata.
Insomma questo prende e mi inizia a chiedere a mò di domanda retorica che droghe di preciso prendo o ho preso quella sera. Se fossi stata meglio mi sarei credo messa a sorridere. Non perchè ci sia qualcosa da ridere per situazioni di tossicodipendenza, intendiamoci, ma perchè questo si campava le sue teorie sulla base dell'avermi guardata in faccia e vista, presumibilmente, un po' magra e in quel momento un po' pallida.
Diceva che quel tipo di crisi respiratoria era crisi d'astinenza e che lui ne vedeva tantissime e le sapeva riconoscere.
Mi disse che tanto il metadone se continuavo a rifiutarmi di dare spiegazioni reali non me lo dava (e monomale).
Poi senza ascoltarmi commissionò, con un 'va bene' di congedo ai discorsi con me, una certa dose di un certo farmaco da farsi per iniezione affinchè l'infermiera la preparasse. Gli chiesi che tipo di farmaco fosse. Si rifiutò (ed è persino illegale che io sappia) di darmi spiegazioni per ben due volte. Poi l'infermiera gli fece notare che era tenuto a dirmelo ed io insistetti ulteriormente proprio perchè, visto cosa già era accaduto e vista quell'ostilità, volevo capire cosa voleva iniettarmi. Subito mi disse solo un certo dosaggio di en (che mia madre poi mi disse comunque esssere un dosaggio molto molto forte tanto più se fatto per via di iniezione e ad una ragazza e ad una ragazza con una corporatura comunque esile e ad una ragazza che non aveva mai preso di quei 'tranquillanti'). Dopo un po' mi disse pure, ad uno sguardo dell'infermiera per nulla evasivo, che c'era pure un non so piu quale farmaco che serviva per gestire le crisi d'astinenza come la mia.
Ancora!
Mi sono rifiutata di prenderlo rispecificando con le forze che potevo che non avevo preso (mai nella vita fra l'altro, manco canne con gli amici al liceo) alcuna stracazzo di droga. Sto deficiente si rifiutò allora di visitarmi o cercare spiegazione in altra diagnosi e mi rispedì a casa con un foglio in cui si parava il culo scrivendo che mi ero rifiutata di prendere la cura - senza specificare quale nè sulla base di cosa era stata decisa - e questo, mi disse, per lui era l'ennesima conferma delle mie condizioni di tossicodipendente perchè i tossici pare abbiano di queste crisi per cui poi rifiutano le cure. Cioè secondo lui ero andata lì in cerca di metadone e vedendo che non mi davano quello me ne andavo. Bah.
Andai in un altro ospedale e mi visitarono, mi controllarono il battito e il respiro (la saturazione mi pare) ogni poco, mi diedero per flebo un calmante ed un antidolorifico prima di farmi fare sì un consulto psichiatrico (e anche qui ci sarebbe da ridere), perchè la mia poteva anche essere, mi dissero, una crisi di panico (panico "perchè" non si capiva), ma mi fecero anche una radiografia, una visita approfondita, etc. Non avevo niente di rotto, per altro era facile da immaginare, ma venne fuori che presumibilmente avevo qualcosa all'esofago: come una specie di infezione e questo provocava anche difficoltà di respirazione per via del male all'attaccatura del tubo che magari, suppongo io, rompe le palle anche alla trachea. Ad ogni modo sicuramente poi un po' ha peggiorato le cose lo spavento e il prolungarsi dei tempi in cui avevo difficoltà respiratorie che, però, han trovato molto più che umano. Con l'antidolorifico che mi diedero mi sentii meglio, ma l'esofagite quando prende non perdona. Soprattutto non perdonano - ho poi scoperto trovandomi a riaverla in alcune altre occasioni - super alcolici se bevuti lisci.
Si venne poi a scoprire che l'esofagite è tipica in casi di lavande gastriche fatte male e che in effetti la mia sembrava proprio provocata dall'aver grattato col tubo della lavanda gastrica. Quell'estate (la sera in cui stavo male era di fine settembre) avevo subito a Livorno una lavanda gastrica, dopo un cocktail bomba di alcool e farmaci presi ad minchiam, in cui c'erano stati problemi proprio per via del tubo che mi rimisero due volte per poi lasciarmi intubata di vari tubi (carbone attivo, flebo, controllo del battito e della pressione continuo,...) per tre giorni in una città non mia, completamente da sola, ricoverata in una stanza d'ospedale mai conosciuto prima.
Mi ero presa quel cocktail volutamente e direi pure consciamente, conscia di quella incoscienza che ti fa fare grandi gesti, ma anche grandi stronzate, per amore.... pare assurdo. Ma questa è quasi un'altra storia e non ho neanche tutta sta voglia di raccontarla ora che l'esofagite la tengo sotto controllo e la ragazza del lago l'ho lasciata al suo lago senza tentativi di gesti inconsulti.
Una cosa però è da dire: non so se è da considerarsi più inconsulto il mio gesto inutile e idiota di prendere merda per tentare d'ammazzarmi su un viale sotto casa di un amore perso per volontà mia o se sia più inconsulto per quell'amore il gesto di stare a chiudere le tapparelle della finestra del proprio salotto toscano per non guardare.