SPIRALE CICLICA

Si corre soli. Si corre come cani senza guinzaglio in strade di paesini senza padroni. Eroi per giorni che se ne sono andati come faremo noi con le museruole sciolte, ma senza accorgerci. Ci saremmo portati bottiglie di vino rosso e penne scariche se avessimo saputo. Un cast di attori più che di eroi.

venerdì 29 luglio 2011

Testamento di viandante

Matita gialla
fucile di espedienti per dirti
che sono
nella mia stanza come mia destinazione:
nuova, ogni giorni.

Le mie cartoline di cui hai fatto calendari
riportate via dal vento
che mi segue ovunque;
mi si appende alle vesti;
apprende i miei gesti,
gioca a memoria
affinché io mi sposti.
Ancora.

E butto giù l'ancora d'altraparte.
Per poco più di ora.

Provo a provare paura:
ogni sirena mi pare sorella.
Sento di sentire stupore
e non è poi sempre meraviglia.
M'impaurisce ogni rumore.
E scuoto e mi scuote
le tende: tutto;
per saperne la fattura,
le straccio, disegno, me le porto via.

Racconterà di me, lui
alla polizia o agli ospiti
nelle poltrone scomode della hall
dove si dice quanto accade,
di avventure mai avvenute tra i seduti,
delle tende che ha ricomprato. Nuove
per questo suo hotel
che stasera avrò sfitto di me. 

Ne verranno altri 100, credimi
e tra 100 anni tornerò anche io.
Tireranno via le coperte:
avvolgeranno il mio corpo, quelle. 

D'altronde non ci saranno più tende per me.
Quelle che sarò riuscito a rubare,
scritte o strappate,
le avrò lasciate appese
in una stanza d'albergo
per far asciugare le righe.

Sotto coperta finirò così, finalmente. 

Senza più occhi 
per riempirli di bello
e di nuovo.
Senza più mani
per stringere
mani,
a creare e strappare.
Nemmeno più assi da giocare,
da stirare,
o perdere.
Non un abito da riporre
nel mio bagaglio
che, pure, sarà colmo questo mio! 

Ed a lui,
al mio albergatore,
che non ha avuto mai viaggio,
che ho conosciuto
in tutte le sue facce,
un giorno per volta,
a lui dedicherò le mie emozioni
poichè non ha potuto.

Lo trovavo sempre ad attender la mia porta,
mi capisci,
a raccontare le mie gesta e vesti,
gesti e oggi resti.
Resta,
restava in una portineria di pettegoli
a guardarmi passare.
Io, vita, a guardarlo appena
prima d'andare, ripartire, scappare
e lui arricchito quel poco 
che non basta mai
a mangiarsi le dita,
a mangiarsi la vita,
alla finestra
senza colori da tirare
per parare la pioggia, pareggiare,
chiudere gli occhi al mare, il naso
otturato dal tanto influenzare 
i viandanti.

Al mio albergatore,
a tutti i suoi volti che 
di volta in volta
d'uno sguardo
m'han avvolta la faccia,
le smorfie
e la borsa,
dono cento primi sguardi ad una sua stanza nuova
(nuova di mia vita),
quelle che mi ha prestato lui
e affitterà ancora:
che siano nei suoi occhi
almeno per un'ora. 


h.n. 17.0629-7-11 

venerdì 22 luglio 2011

Nostos

(Viaggi e miraggi - Francesco De Gregori)


Cerco l’uscita della spirale ciclica. 
Sta tutto in un locale in penombra 
dove ci sei senza esserci, lo capisci? 
Nel tabacco di un ubriaco con 
la cartina pronta all’orecchio. Nella polvere. 
La mia illusione, così concreta da volerla realizzare. 
Nella luce dei miei fari quando sbatto le ciglia 
guardandomi intorno, specchiandomi in giro. 
Dove sono, sono. Dove sono, sei. 
Sai. D’assente. 

Dunque colgo, raccolgo, le parole nelle strade; 
eco della speranza di arrivarti, 
tenerti, raggiunto tra le pagine, 
trovarti, quando mi sfuggi. 
Invece ecc’ostacoli. 
E’ pretesa, pretesto. 
E’ la mia repulsione 
nel saltare giù dal palco 
o pure l’entusiasmo, folle, 
di riempirne uno ancora insieme. 
Ore suppellettili 
come la mia chitarra, 
resa d’un vento complice. 
Lo stesso che stropiccia, 
svolta i fogli 
svuotando i righi 
di uno spartito 
partito e sparito, 
portatosi via le mie dita 
quando dovrei chiamarti per nome. 

Amo le stazioni: 
sono per abbracci e addii; 
avvicinarsi o andarsene. 
Comunque muoversi. 
E quando il treno giunge 
cercare tra i binari. 

L’alba che mi riporta ad Itaca 
sarà tutta pioggia 
e vuole un’ora e mezza 
affinchè sia. 
Siamo scesi dalla scala antincendio 
riconsegnando la stanza 
al buio restante. 
I cani in cortile 
piangevano la cascata 
e ancora tuoni 
a seminarsi per la collina intera 
senza rovinarsi. 
Per terza 
ho oltrepassato il cancello. 
Lui spingeva il passeggino divenuto capanna 
di asciugamani rubati all’hotel, 
appesi alla buona. 
Stringevo nella mano 
un ombrelluccio bucato. 
Piedi a sparigliare schizzi 
e odore di marcio agli occhi. 

Squillò il telefono. 
Al suo, tuo padre 
mi avvertiva che ci avrebbe accompagnati 
al capolinea. 
La Panda volò: 
sul tergicristallo si mescolarono 
al clima bagnato 
le scuse e i grazie. 
Restò posto per risa 
ed al mio 
lasciai qualcosa per te. 
Riempii l’abitacolo 
di malinconia usa e getta 
e risalendone 
non avresti comunque subodorato niente. 

In quel diluvio non sei arrivato 
a conferire alla pioggia 
la sua identità ambivalente 
d’attrazione, fascino, eccitazione 
e poi dolore: pianto o rimpianto. 
Non sei accorso 
correndo 
all’occorrente baciarmi, 
davanti tutto, nonostante tutti. 
Lui non s’era dispiaciuto. 
Tu eri andato 
di chilometri distante 
e la chimica la stavi studiando altrove. 
Io, a casa tua, 
nell’acqua non ti ho disegnato 
e scrivendo ti cospargo oggi 
di pensieri in briciole. 

E allora, lo vedi, debbo raccontarlo: 
l’autobus è partito. 
Coi capelli umidi 
e lo sguardo storto 
ho scattato una fotografia 
al finestrino. 
Accanto, tu mi tieni la mano; 
vesti addosso una smorfia che amo. 


[Venere - Carmen Consoli]


h.n. 


(Scritto
- la sera del 9 giugno al Pub Manhattan;
- la mattina del 9 luglio in auto verso Sant'Agata Bolognese;
e concluso il 22 luglio 2011 alle 21.22)

Note:
- sono presenti riferimenti ad una domanda fattami circa la mia sceneggiatura da una persona; al lavoro sul mito di Ulisse che sto portando avanti da mesi e ad una canzone inedita ascoltata recentemente in versione chitarra e voce; al ritorno alla mia seconda patria dell'aprile 2008
- il testo conta 416 parole (articoli e titolo compresi)