SPIRALE CICLICA

Si corre soli. Si corre come cani senza guinzaglio in strade di paesini senza padroni. Eroi per giorni che se ne sono andati come faremo noi con le museruole sciolte, ma senza accorgerci. Ci saremmo portati bottiglie di vino rosso e penne scariche se avessimo saputo. Un cast di attori più che di eroi.

venerdì 18 novembre 2011

Giocolieri


E mi pulisci gli occhi.
Mi spazzi via tutte le foglie secche e il fango, 
ritorno bella. Ritorno io.
E' perchè sei tornato tu.
Compari quando mi serve davvero, 
senza che te ne abbia informato.
Ho capito da quelle telefonate di tutti i pomeriggi
che dal momento in cui ho trovato la lanterna
avrei avuto bisogno di te.
E' sera e prima di stenderci 
ti tolgo la maschera 
per farla riposare in pace.
E' fragile come noi: 
unica, per questo.
E mi metto a scolpire il tuo personaggio
nel mio libro. 
In modo che sparisca,
anche se forse ti spaventa;
sembra di cancellarti
parola a parola
e lasciare solo colori.
Bianchi, neri, blu,.. che dicono, zitti.
Tutte le mie partenze col rospo in gola
che duravano sempre tre giorni:
ho ripreso quel treno mille volte.
Lo sai, non ho mai potuto dimenticarti 
nè accantonarti, metterti da parte.
E quella sinistra malinconia sempre appesa
come accappatoio alle palpebre.
Ho capito quello che mi raccontavi tu,
mi è sembrata un'assurda catena
al polso, al braccio, alla caviglia, lucchetto al cuore
e ci ho provato a disintossicarmi,
ad andarmene dal labirinto senza fili,
senza uscita per la bicicletta
e mi sono seduta sul prato e 
ho preso a chiamarla spirale ciclica,
ci ho bevuto su qualcosa.
Ma è così;
Nessuno può cambiare le cose.
La tua inquietudine la conosco
e comunque, sappi, 
ha un buon profumo.
Ed io ci sono

e m'importa tutto di quel tuo stare a guardare il mondo sul tetto come un matto,
come un gatto;
e di questo essere barchette di cartoncino sulla stessa onda
che mi fa impazzire.
E' agre, aspro, dolce, poi rassicurante
dondolare
e sorpresa di bimbo al primo sguardo al mattino
che ricorda un regalo:
arricchisce
e prima di noi, l'aria.
Ci ha addobbati di gioielli veri.
Ci ha vestiti di giubbotti stretti.
Ci ha scaldati di santi e dannati vivi.
Non è da tutti, nè per tutti.
Dobbiamo prenderla com'è
questa perla dentro la conchiglia;
questo rumore di mare segreto all'orecchio
da non far svanire, nodo che non scioglie.
Dobbiamo dircelo. Crederci sempre.
E questo, intendimi bene, non è un brano: è un abbraccio.
Eri ogni volta l'unico in quell'attimo
a potermi restituire una bussola di legno senza lancette
ed un senso;
il sorriso ed un sollievo allo sgomento.
Sei arrivato senza che ti chiamassi.
Non ti ho detto nulla e hai capito tutto.
Mi hai stretta, evanescente.
Per un altro giorno ho saputo che non ero sola.
Sei l'unico a leggermi l'anima come fosse spartito.
Pesa. Pesa come un bagaglio in valigia.
Pesa la carta di quel libro eterno.
Pesa il 'per sempre' nelle nostre canzoni.
Pesante è il timore c'ho avuto di esser troppo
pesante
è timore di quel che vuol dire
esserci sempre,
valere.
Ma questo contare
è quello del finestrino da cui davamo di matto;
quello dell'affetto, mare profondo, che ancor'oggi ti voglio
dove ancor ora ti vivo,
uguale e accresciuto
d'amore ogni giorno
e ti vedo attento
e ti scorgo assorto
e mi dico che in fondo
volerti bene non può farti male.
E' ingenuo pensare.
Ma quando vieni da me e mi dici 'sto giù'
senza chiuderti solitario in stanza
e io già so
che, impotente e distante, voglio solo riportarti
sorriso e sospiro
e conforto al tuo volto
impensierito, attonito, stufo, stanco,
mi sbraccio e penso ed accorro,
precipito a dirti 
che è bello
che tu sia venuto da me
che voglio il tuo peggio,
che non so darti altro
che un abbraccio di sarto
vestito ritagliato,
di cartacrespa costruito
con pieghe delle mie mani
e linee spezzate e lunghe,
contorni che definisco coi toni
di una maschera da bambini alle prove
d'una scenetta da copione di poche parole.
E' così che ti faccio scivolare
dalle dita quell'urgenza,
le forbici e la carta
e ti arrivo vicino in distanza.
E probabilmente è vero.
Arrivi con quattro parole
e dai riposo e umidi sguardi brilli, un disarmarci
che sembra di sapersi addosso
giocandosi due poker d'assi.




A Mauro De Felice.
A volte penso che tu sia l'unica persona che mi ha recepita per come sono; 
a volte penso anche che tu sia l'unica persona con cui vivo 
essendo libera di essere me stessa

2.43 - 18/11/2011

mercoledì 16 novembre 2011

La cosa

Che caldo. Mai sentito un caldo così soffocante. Non si respira.

E' finita. Questa volta è proprio finita. Lei ha deciso di andarsene. Non la rivedrò più.
Benissimo.
Era così innamorata! Io, devo dire, negli ultimi tempi non ne avevo neanche un gran bisogno. Non gliel'ho mai detto per non farla soffrire. Mi ha lasciato lei. Bel colpo.
Che caldo. Certo che anche lei lasciarmi con questo caldo! In genere preferisco mi lascino in inverno. Lei niente, se ne va così in una stagione qualsiasi. Torna dalla mamma, dalla zia, dalla sorella, dalla cognata. Ma possibile che non mi pensi. Ecco, forse ora mi chiama. Certo, la telepatia. Lo sa che per me sarebbe importante. Sono lì che lo aspetto, lo guardo, lo fisso il telefono. Niente. Sono qui da due ore e lui: zitto. Maledizione. Hanno imparato anche gli oggetti. Quando li vuoi... niente. Appena sei al cesso... driin. Sì, ma non posso mica passare la giornata al cesso.
Ma lei non lo sentirà il caldo? E allora perchè non fa niente. Lo sa cosa vorrebbe dire per me in questo momento vedermela correre qui tutta rossa, accaldata, amore-amore, certo, la resurrezione, il miracolo. E' così che si diventa cattolici. 
Ti amo più di prima, è colpa mia, è colpa mia.
Ma lascia stare, dai. E' una storia finita e basta. Bisogna che me lo metta in testa una volta per tutte. Non si torna indietro. Non è mica il gioco dell'oca. No, magari uno pensa: la riconquisto! Nooo, non si rimonta mai. Vai lì, fai un sacco di discorsi, preparati, belli anche, di quelli che fanno colpo. Ma quale colpo? Una volta facevano colpo! Ma cosa parlo a fare con questa faccia da cretino, perdente. Un pugno ci vorrebbe. Pum. Invece di star lì a inciampare sulle parole, un fiume di parole, che poi quella va a casa e dice: ma che ha detto?! Niente. Pum, invece. Quello sì che se lo porta a casa. 
Eh, ma che caldo. 
Colpa mia. Sempre stata colpa mia. Non l'ho saputa tenere. Ce la faccio mica io a fare una cosa seria. Riesco sempre a sciupare tutto. 
All'inizio per le donne sono un genio: mi attaccano tutte le medaglie sul petto. Sono una meraviglia di uomo, l'unico. Ma perchè duro così poco come meraviglia? Dopo un po' mi strappano le medaglie e m'insultano: sei un egoista fottuto che non sai voler bene a nessuno, nè a me, nè a tua madre, nè ai tuoi figli. Tu non sai neanche cos'è l'amore. Tu sei capace solo di scopare. Magari! 
Non era mica un complimento. Significava: completamente incapace di amare. 
Io, eh?

È che l'amore è una parola strana. Vola troppo. Andrebbe sostituita.
A volte mi sembra che tutte le civiltà consistano nel dare a qualcosa un nome che non è il suo. E poi sognare sul risultato.
“L'amore”... Non sarebbe meglio chiamarlo... “La cosa”? Potrebbe diventare più concreto.
All'inizio io, lei, l'amavo. Certo, all'inizio ho sempre amato. Sì, voglio dire che ho avuto quegli attimi intensissimi, che al momento sembra che ti lascino dei segni profondi, importanti.
Ma “La cosa” non è questo. O meglio, non è solo questo. “La cosa” è trasformazione, percorso, crescita insieme...sì, per diventare un insieme solido, indistruttibile. Una radice profonda... dove l'altra persona è come un prolungamento del tuo corpo. 
“La cosa”... è l'amore. No, un'altra qualità dell'amore. Una qualità che non rimpiange gli attimi perché diventa la vita. “La cosa” non si fa solo con la volontà. È un patto di sangue stipulato tra due persone e forse, prima ancora, dal destino. Non so se avrò mai la fortuna di farlo, questo patto. Forse ci vorrebbe un uomo.
Cento volte ho provato a cambiare. A ricominciare da capo. A reincarnarmi. Ma mi sono sempre reincarnato...senza di me. 
Eppure io guardo, io avverto, io tocco... Ma è come se sentissi di non essere niente.
Ecco, senza avere avuto una realtà, io passo evanescente tra i sogni di alcune donne che non hanno avuto la possibilità di completarmi.
Ci sarà senz'altro il modo di fare... “La cosa”!
Altrimenti il nostro destino è quello di essere delle scorze di uomini... degli involucri... mai delle persone.
Magari dei personaggi... simpatici anche, affascinanti... mai persone. Ma se è così... l'amore non sarà mai... “materia”, “terra”, “cosa”... sarà sempre una parola che vola... una farfalla che ti si posa un attimo sulla testa... e ti rende tanto più ridicolo quanto maggiore è la sua bellezza.

Giorgio Gaber.


sabato 5 novembre 2011

(Le cose che mi restano - Parto delle nuvole pesanti)

1946 
Un bar di notte. Un pc acceso su iniziale tavolo (poi diventerà un giardino fiorato… teatro e funerale d’una storia di naufragio). Traffico. D’anima e corpi estranei. 

Traffico di menti immobili, sceneggiate dai denti avidi. Ridivido i petali come l’ultima volta. Raccoglievo tra due dita ogni consistenza dal profumo fruttato nel vasetto di roselline sul mio tavolo: non si intravedono spine. Sui rametti verdi restavano inermi quei finti germogli. Non avevo più paura di fare del male a qualcuno e tu neanche, da quando accavallavo le gambe sugli sgabelli bassi del locale in cui ancora stai lavorando. 
Oggi non ho voglia di raccogliere anche le briciole degli sguardi che mi getti da fuori gli occhiali, distratti, sfrattati da altre facce che qui non ci sono, medaglie appuntate non si sa se su fogli di carte o di pixel soltanto. Ti scivolano appena abbassi lo sguardo, appena raggiungi la mia stravagante concentrazione basata sempre su punti di contatto diversi, con te. E col MeanTea. 
Faremo notte ed io aspetterò che finisci il turno per trovare una di quelle scuse banali con cui sorprendere la tua serata e costruirne mia traduzione che tradizioni le tue abitudini e m’inserisca nella tua vita oltrechè nel tuo bar. 
D’accordo, non è una metropoli del sud e che siamo d’accordo l’ho deciso io soltanto. Non è neanche New Orleans, pure quando qualche volta il cielo lo immaginerei uguale. 
Stai a un bivio. 
Io tra 48 ore volerò via e, prima, voglio indietro il mio pensiero e la capacità di fare a meno di costruirti nei miei disegni matti. 
Io chi sono? Bimba che sbuffa, sbruffa, droga, pesa, s’esoterica il MeanTea per scrivere ciò ch’è la sua vita di fatto. E’ fatto. 
E prosa. 

- La conoscevo. 
Mi ha chiamato, sono passati due anni dall’ultima volta che l’ho sentita. E si rifà viva così?! Neanche un fottuto ciao. 
Soltanto: 
- Ehi, sono io. 
Avrei riconosciuto quella voce anche dopo mille anni, figuriamoci lì. 
Sono qui in città, possiamo vederci? 
- Ma chi cazzo frequenti? 
- Non ti riguarda 
- Ora sì 
- Mi aiuti? 
- Non credo di poter far molto 
- Questo lo decido io. 

Era fragile. 

Senza che te ne accorgessi stavi componendo un numero. Artista, in un modo o nell’altro. Da autista tu invece non eri nato, ma ti assicuro: accompagnarla t’avrebbe appagato. O l’avresti pagato. 

Vedi le mie dita muoversi sicure sulla tastiera, mentre telefoni sparecchiando i tavolini: il mio no. 
Poi il bip prolungato dello squillo con lo sguardo fisso su quel muro sfregiato con cifre che compongono la chiave per comunicare con cellulari appartenenti a persone diverse… ognuna un nome impresso, con punte di pennarelli colorati, sul muro del tuo bar. Non so se anche nella tua testa. Intanto ho poggiato le chiavi sul legno, accanto ai fiori e ai tovaglioli bianchi ripiegati dentro il contenitore con su una marca e una tinta pastello, verde. 
Nomi di puttane dalle funamboliche qualità e incomprensibili geroglifici urbani. 

- Pronto? 
Ne hai richiamata una. 
La tua voce somigliava ad una scialuppa di salvataggio, Ric, venuta a recuperare ciò che resta del tuo corpo alla deriva. 
Chi è? Per un attimo ho creduto non ti rispondesse nemmeno. L’ho sperato, hai ragione a ipotizzarlo. Poi ti ho sentito, nitido. Udivo la tua voce dire: 
Sono io 
E’ seguito un silenzio…. Più muto di un mimo dentro un feretro il giorno del suo funerale. Poi la sua parlata è riemersa, questa volta era diversa. 
- Cosa c’è? 
L’ho sentita persino io. 
E non era in viva voce. 
- Han telefonato i carabinieri, vogliono chiudere il bar. Sembra che qualche mafia l’abbia preso di mira, insomma rischio il botto. 


(Pearl Jam - State of love and trust)

Pensavo alle mattonelle grigie e ai ri-quadri rossi mentre è squillato il mio. Pensavo che non avevamo paura, ma era incertezza mista ed un bisogno di sentire se stessi senza potersi chiamare. 

- Sylvia? 
- Sì, ciao…. Dimmi 
- Ma Jean è con te? 
- No, Nadine, ci siamo lasciati un mese fa. 
- Oh, scusa, mi spiace, cercavo lo zio per… 
- Nadi, non mi hai mai potuta soffrire e ora non dovrai più manifestare cordialità sfrontata quasi come il tuo trucco sciolto su di una maschera cruda, che non dice niente, sii solo contenta di non trovare lo zio per. 

Clic. Riappesi sul ‘per’ come avevo fatto nell’interrompere la sua ipocrisia con un atto di coraggio, d’onestà, di sberleffo. Tu non conosci certo questo mio lato visto che raccogli le tazze su un vassoio a fiori, picchiettando sempre le dita sul tuo grembiule nero in maniera diversa ad ogni bicchiere che prendi in mano, ma guardandomi sempre dalla stessa prospettiva e con quell’espressione incazzosa che non ti togli quasi mai di faccia. Tranne quando mi saluti. 
Comunque consapevole che adesso tu sai che sono libera ed io sono conscia di quanto tu sia incasinato sentimentalmente. 

Un giardino e quadri appesi a mattonelle grigie. I fiori sui tavolini danno idea di un ristorante in cui i soliti non sarebbero entrati. Invece no. 
Un soffio, per determinare un’onda (un’ombra) e il pullman sarebbe arrivato dentro al flusso di auto intanto che tu, intento a non far cadere i vetri, apparecchiavi ed io stavo a bere il mio MeanTea. 
Attendevo l’ora di chiusura ogni sera, arrivando verso le 19.45. Si sarebbe ritardato anche oggi perché Pavese nel mio mondo lo leggono in troppi. 
Le note sembrano cadermi addosso seguendo la cruenta e inevitabile malinconia di un blues che risuona nel locale. Come i miei pensieri che, a stento, valicano le palpebre quasi chiuse. 
[E’ l’ora della nanna, stella. Andiamo? 
Perché proprio ora riaffiorava quel ricordo? Quella voce? Fottuta mente. Fatata, mente. Fottuta menta. 
Non sono più una ragazzina. Vado a letto quando mi pare, risposi a quella voce che non voleva uscirmi dalle vesti. 
Resti? 
Non poteva continuare così. Prima o poi qualche cinghia di trasmissione letale avrebbe ceduto o m’avrebbe punita. Non volevo e non potevo pensare a cosa sarebbe accaduto se… 
Senza che me ne rendessi conto stavo con uno dei petali staccati tra le mani. Sarebbe bastato riattaccare con il pretesto del traffico, ma gli incroci di sguardi e gli incastri di vite sono pezzi di puzzle che ridipingi di sfumature diverse e appena ti accorgi che sei dentro al disegno rimani spiazzato all’idea di doverti guardare allo specchio per trovare come porre l’ultimo pezzo. E la mano è d’un altro d’un tratto, di penna… libertà o memorie, ancora non si capisce. 
Sembrerebbe più giusto lasciarsi aiutare, costruire, gustare il principio di qualcosa di matto come un’unione o comunione, d’assoluzione soltanto, di soluzione io tratto. 

-  M’hai raccontato d’un posto qui vicino dove si beve un buon vino – d’incanto mi hai detto. 
Ero abituata a cercare io un contesto, ma il vino è perfetto. Te l’avrei pure letto, ma scrivevo di un sasso su un lago e non t’ho dato spago. Scrivevo, sfogliavo: petali, più liberi di leggersi di un libro. Più decretanti un destino fortuito, di uno schema gratuito su pagine di cartapesta che accartoccio quando sbaglio o non mi piace, per costruire nidi di rondini e spighe. 

Le mie ciglia accarezzavano l’aria lasciando ad ogni battito colori diversi su quei ricordi che si ostinavano a non lasciare la scena. Patetismi a buon mercato se ne trovano sempre, volendo.
Dovevo alzarmi e lasciarli lì, da soli. Ma, poi, cosa ne sarebbe stato? Fissai l’entrata. Uscire?
Concentrandomi su di te, sono rimasta seduta. Adesso entrerà qualcuno e sarà tutto finito, continuavo a ripetermi mentre il passato continuava il suo spettacolo, consumato attore qual era. 

Forse non arriverà. Forse questo bicchiere vuoto resterà solo. Solo come me, ed io fragile come lei, una interprete qualsiasi nelle mie giornate tutte ugualmente mal spese. 
In questi ultimi mesi… è ritornata a leggere lo stesso racconto di Pavese nel mio bar, ogni sera, quasi commossa dal significato di ciò che leggeva. 

Non mi capitava mai. Non è che non piovesse a Roma, è che dopo due gocce viaggiano altre auto, dopo ogni bicchiere in attesa al davanzale, non c’è lui a riempirmelo di nuovo, né a portarlo via picchiettando le dita a ritmo di blues sul nero di un qualsivoglia vestito. O tempo. O pelle. Non c’è neanche sempre uno di quegli incontri di sesso da aspettare. Una delle sue prostitute in prestito d’alto borgo che ora si rifiuta di viverlo così e preferisce andarselo a prendere: il destino. 


(Mimmo Locasciulli - Alice è felice)


Mi hai detto di quel vino e avevo pronto il calice, ho festeggiato il salto del fosso, ma sul lago non siamo mai ancora arrivati perché questo bar, questa professione, questo aeroporto, lasciano te e me di sasso: tu nel dormire ed io nel guardarti e nello sbigottimento. Il sasso, invece, nel fosso o in fondo al lago.

I miei pensieri cadevano a terra come l’intonaco secco delle pareti insieme alla fotografia di un cane a passeggio di passaggio che sarebbe stata china su carta se fosse stata dipinta ed era sfumata di rosso, scivolata al pavimento grigio. Scheggia ingiallita ed inutili immodestie. Sapevo da tempo che le mostre d’arte nella sala da tea erano composte dei tuoi disegni.

- Cameriere? Il conto.

Ma non avrei permesso a quei pensieri di decidere della tua vita. Tu eri un altro o almeno io ero stata la prima assetata d’una serata d’estate. Nient’altro. Qualcosa dentro di te doveva pur essere rimasto. Se era così bastava risvegliarlo. Un tea zuccherato non m’era mica bastato.
I miei occhi non guardavano il locale, ma il mio passato (sono andata a cena). Mi serviva un’arma per farlo fuori, farmi fuori, azzerare la memoria dell’ennesima sera in cui la compagnia è stata soltanto quella dei tuoi occhi nella tua stanza da lavoro. Beh, quel vino invecchierà ancora un po’, sarà forse poi più buono, lo so.
Ma che triste serata, che affronto, che conto. Senza carta per farmi tutti i calcoli a mano.

- Mi eccita pensare di realizzare i miei racconti, mi sembra di seguirti, ma mai di recitare.
- Che altro posso dire?
- Ciao? – l’ho pensato, solo pensato.
Non hai capito, m’hai spiato d’un lato, ti credevo spogliato di congetture e paure, ma ti sei defilato e ci sono rimasta un po’ male. Non credere.
- M’avresti consigliato altro solo qualche tempo fa – continui tu.
Non immagini. No, non immagini. Le immagini sono ferme, ma almeno sempre uguali. Tu cambi come io cambio colore a grembiule e mattonelle in uno dei miei scritti, tu impazzisci sotto contratto d’apprendistato, tu non vedi questo posto, questo volto, un certo incontro, come fatato. E’ tutto fottuto, dannato, ma sei tu che sei bendato. Non immagini.

- A cosa stai pensando: al passato? Al futuro? Al creato? Hai un’espressione….
- …assopita. Non dormo da un paio di settimane quasi.

Non ho risposto altro alle tue fasi di circostanza sbagliate, ridicole, spietate col fucile spianato e caricato ad indifferenza e lacune dopo ogni sera in cui facevo i conti con quel puzzle sulle cui fessure scrivevo l’amore per te e tutti sapevano che quella tua era stata una frase del cazzo.

In tutta risposta ho preso la bottiglietta d’acqua che mi hai accompagnato stasera al solito MeanTea ed ho bevuto come fosse il vino che non m’avevi offerto nel tuo primo approccio. Ho pensato:
(Dream Theater - The mirror)
“ecco, adesso sappi che potrai baciarmi giusto così, quando dietro la tenda, girando dall’altra parte del bancone, scoprirai che le carte parlavano di me come artefice di vittoria e ti riterrai cretino mentre t’attaccherai ad una bocca a caso e sceglierai la mia d’istinto. E’ scritto. Ed è mia la penna come la picca intinta nel fango insanguinato di questo superficiale dolore rappreso nel sudore d’averti che non è tutt’ora definito".
Vivere nel tratto di tempo di un drink e rendermi eterna: una canzone che ti piace.

C’era un bicchiere, ho usato la bocca. C’era lo sgabello, ho scritto con le sue gambe su quadri rossi e mattonelle sempre grigie. Non ancora coinvolti nel fuoco d’una minaccia.
Mi osservi troppo, ma io, dimentichi, guardo per storto. Ti spengo quando voglio, come musica per organi scaldati al microonde, in casa, in una cena veloce e un po’ rassegnata.
L’unica consolazione è la luce dell’usb che lampeggia come casa addobbata a festa per sentirsi in famiglia. O come segnali di necessaria attenzione in autostrada notturna, nel bar. Tu hai telefonato, io odio ripetermi quando non ha senso.
Glielo hai dato tu. Avete distrutto il mio ignoto senza darvi importanza e manco conoscere il mio racconto, il pezzo di mente deviato che ha tradotto in note quel giardino incantato fatto di piccoli vasetti di fiori finti, roselline, ce n’erano pure di bianche insieme ad una nuova, pura, metropolitan leggend per la mia vita ed a un po’ d’inchiostro buttato, un danno mancato. Una serata qualunque in una sala da MeanTea senza manco renderla indifferente, come sei tu quando mi guardi, evidentemente.

Non capirai queste righe, non sarà una lettera solo, nemmanco calligrafia. Ti lascerò un indirizzo, ma sarà solo il mio, se lo vorrai. Vizio d’artista essere incompresi nel prezzo delle proprie menti. E senza bluff per cuori e picche mischiati a casaccio, ma entrambi nel sacco che calcio con una caviglia nuda. La sintonia vedi che la si trova? Non saprai mai cosa penso realmente, di noi vedrai solo che dopo la caduta dei fiori non ho detto più niente. Io ridevo al loro 'a dio', tu raccoglievi la fotografia del cane ed era venuta male.
Tu disegni prati di una campagna dove non sono stata: lo abbassi tu il volume di questa serata. Alla fine t’è costata una bottiglia. Cosa ordini?


Sono d'argento e rigoroso. Non ho preconcetti. 
Quello che vedo lo ingoio all'istante 
così com'è, non velato da amore o da avversione. 
Non sono crudele, sono solo veritiero - 
l'occhio di un piccolo dio, quadrangolare. 
Ora sono un lago. Una donna si china su di me, 
cercando nella mia distesa ciò che essa è veramente. 
Poi si volge alle candele o alla luna, quelle bugiarde. 
Vedo la sua schiena e la rifletto fedelmente. 
Lei mi ricompensa con lacrime e un agitare di mani. 
Sono importante per lei. Va e viene. 

Sylvia P. 


[ore 00.52] 
h. and s.

giovedì 3 novembre 2011

Come sta stanotte la Recidiva

Non ho risposte predefinite da dare o da darmi. Questa è la verità. Un pezzetto della mia realtà, della verità… che forse in fondo penso non esista. Sono affermazioni forti, lo so. Ma non credo di avere la verità in tasca, né che nessuno di noi ce l'abbia o la possa avere. E non c'è niente e nessuno da incolpare. È giusto così forse. La verità per me è formata da tanti pezzetti di verità, quella che chiamano anche democrazia in qualche modo, così come la colpa è costituita da tanti pezzetti di colpa e l'orgoglio da pezzetti di orgoglio, e l'amore… da pezzetti di amore. 
Forse è questo un "modo", una "chiave", per vedere le cose, che troppo spesso ci scordiamo un po' tutti. 
Penso che l'attenzione, a noi soprattutto, sia importante. 
Credo che stiamo perdendo il "valore" dell'importanza, che queste nostre vite, più o meno frenetiche e "finte-impegnate" ci riversano tensioni e malumori che se non tentiamo di gestire finiscono inevitabilmente per soffocarci in un mondo di frustrazioni da scaricare e rigettare su chi ci sta attorno, senza nemmeno accorgercene spesso, ma dimenticando un altro mondo. Quello dove le cose che contano ci sono davvero, e ci si crede. Ci si crede un po' di più. 
È un mondo difficile.. sì,.. "è vita intensa,.. felicità a momenti e un futuro incerto". 
Un altro pezzo che conoscevamo bene, e Conosciamo bene, dice "il mondo è come lo fai dentro la testa lo sai"... beh le cose che si potrebbero dire e non dire a questo punto sono tante, veramente tante. 


Non è vero. Non è vero che sono sempre stata così forte, così coerente, così credibile. Ci ho provato, ma non sempre è stato così perché bene o male che sia, che ci piaccia, o non ci piaccia spesso, le circostanze incidono anche sul nostro percorso, sulle nostre scelte, sulle nostre reazioni, e forse i personaggi nascono nel cercare di definire ad occhi chiusi qualcosa che non riusciamo sempre ad essere o a trasmettere del tutto restando in noi. 
Ma io non Sono un personaggio. E non sono l'unica. 


Tra pochi giorni, ormai pochi, sarà il 4-2-02 e saranno 18 anni. 18 anni di vita trascorsi quelli sì cercando di essere bene o male me stessa. Cercando di costruire qualcosa. Di credere in qualcosa, e di darmi le basi per riuscire a credere in me. 
Chiamatela maturità. Io lo chiamo crederci un po' di più. 
Cercando di coltivare dei valori, dei rapporti, me, quella che poi è la mia vita. 
Cercando di Essere me. 


Ho paura, un po'. Sono preoccupata, giù un po'. Perché... non so se c'è un vero perché. 
Il fatto è che mi manchi. 
Parte di me che sei me. Che sei la mia maturità, che sei i miei valori, che sei i miei rapporti, che sei me, che sei la mia vita. Anche tu. 
Che non te ne accorgi ancora e voglio che te ne accorga. 
Non pretendo che tu capisca tutto ciò che vorrei dirti, ma vorrei che fosse così. 
Quello che voglio sei tu. Ed è difendere questo nostro. 
In modo da capire e far capire. Non c'è niente da capire, è che ti voglio, è che credo in te. Credo in noi. Credo in me. Ci credo davvero. Non voglio cadere più. Non è detto che sarà così ma quello che conta lo so. 
Non penso sia mai tardi per capire qualcosa. Non penso che il mio sia un tornare indietro, né il tuo. 
Penso sia un altro passo avanti, un nuovo passo avanti. 
Penso che cosunque sia, quello che voglio è Che Sia. Penso che quello che voglio non per forza sarà. Lo so da tanto tempo questo. 
Ci ho pensato tanto prima di iniziare a scriverti, a scrivere questa specie di libro, di romanzo o quel che è. 
Ed ora sono qui, a dirti perché. 


Sento che ascoltare l'istinto fa bene, almeno ogni tanto. Spesso ce lo si dimentica. E si ricade in un mondo che non ci va più. Che non è il nostro mondo. 
Che è razionale e basta, stupido. 


Chiamatemi ingenua! 
Non me ne frega niente. 


Si cambia, ma cosa importa. Cambiano le circostanze, cambiano i governi, cambiano i compagni, cambiano i viaggi, le direzioni, a volte ci si allontana, anche parecchio. Ma quello che conta lo so. 
Quello che dà un senso a circostanze, anche assurde, governi, compagni, viaggi, direzioni, distanze. Vicinanze. 


Ci sono sensazioni che presto ci fanno imparare a cancellare. Cause? A cominciare dal tempo, a finire con situazioni, lavori, occupazioni, tensioni, delusione, incazzature, casini, insoddisfazione, noia, tristezze, paura. 
Ma "non mollare". Me l'hai detto mille volte tu. 
E mi è servito davvero. 
A quest'ora non sarei qui a scriverti, lo sai. 
Stanchezza. 
Lo so. 
Non voglio chiederti nulla. 
Spero di darti qualcosa questa volta, forse solo un po' di energia, forse qualche pagina o qualche scarabocchio, qualche frase copiata male. Forse altro. 
Difficile da definire. 
"Magari pensaci", chiudevo sempre così. Senza capire niente. 
Non era per comodità o per chissà che altro, volevo trasmetterti calma, tranquillità, immaginarti in qualsiasi posto a pensare. Era immaginarti con me vicina a pensarci un po' su, sulle cose. L'immaginazione non basta, specie in certe occasioni. Non ho mai creduto bastasse da sola. Sicuramente a volte ho sbagliato, ma l'ho sempre capito dopo. Forse per questo mi sono trovata in queste situazioni troppe volte, a starci male. Ma magari preferisco anche che sia cosi. Sì, non ho mai pensato che l'immaginazione bastasse, ma forse non era del tutto immaginazione. 


È difficile. Cristo se lo so! 
Magari a volte pensi anche non ne valga più la pena. 
Giovanni Falcone... John Lennon.... Martin Luther King... Ernesto Che Guevara... 
Noi. 
Quando si rimane soli, e se si cade poi,... è forse inevitabile “morirci”, lasciarci perdere,… 


Sono anche una ragazza convinta, e forse a volte un po' insicura, stanca, sbadata, smemorata, pazza, strana, fragile. 


Una stellina molto piccola e blu e rossa emanava una luce in quel cielo che cambiava giorno dopo giorno da mille e mille anni. Però lei rimaneva lì. A volte cambiava posizione, a volte cambiava posto, a volte cambiava forma, cambiava modo di illuminare, a volte decideva di non illuminare, a volte illuminava dall'altra parte del mondo, a volte scompariva, a volte non si vedeva più, cambiava prospettiva quindi, cambiava situazione quindi. Ogni volta che alzavo gli occhi da quel 1997 (un Capo Horn), la trovavo sempre. Se volevo. Lei era lì, vicina a me, forse dentro di me anche. 


Nel 1997 c'è stato un concerto importante che ha dato il via a tutta una serie di considerazioni e cambiamenti in me e nella mia vita, nel mio modo di pensare e di reagire, di capire le cose, di non capirle. Di essere. 
Ho iniziato a pensare meglio le cose, a sentire meglio cose che avevo già nel sangue. E ho letto molto quell'anno. Ho letto musica, ho letto libri, ho letto scene, ho letto film, ho letto me.


Col tempo ho imparato a capirmi meglio. Ad ascoltarmi di più anche. Non so. Non ricordo tutto. 


Nel 1999 a cavallo (un cavallo bianco) con il 2000 mi sono innamorata di te. 
Ed è stato forse il Capo Horn più importante della mia vita. 
Ho imparato a sentire mia la mia vita. A volerla mia. A capire certi meccanismi e certe emozioni e certe cose di cui prima non mi accorgevo. Ho iniziato a Vivere. 
Per una serie di motivazioni, davvero. Una serie di motivazioni. 


Mi sono affacciata alla finestra della mia stanza stasera. Ho guardato fuori, il cielo. E mi sono ricordata come quel cielo o un cielo sempre diverso l'ho guardato mille volte in questo modo o in un modo diverso. 
Ho guardato quei colori, e quella così naturale e assurda psichedelia che ci resta attorno anche quando non ce ne accorgiamo e ho respirato l'Aria, ho pensato a te subito dopo. 
Ho pensato a quanto sei importante. Perché lo sento davvero dentro. 
Ho pensato a quanto questo potesse apparire un inutile e stupido monologo ripetitivo oppure no. 
Poi non ho pensato più a niente, e ho guardato solo quei colori, senza contorni. 


Senza definizioni troppo strette. 


Ma non per questo imprecisi. O forse si. Ma belli nel loro essere. 


Mi sono seduta su una seggiola di legno e sono rimasta con le braccia incrociate sopra il davanzale e la testa appoggiata alle braccia. Come una bimba che non ha mai visto nessun colore o che li ha persi tutti in un attimo. 
Con una faccina da cucciolotta un quarto stupita, un quarto tranquilla, un quarto fragile, un quarto strana. 
Un po' piccola e fragile ed insicura, un po' autonoma e indipendente e convinta. 


Abitavo in una casa in un paese in provincia di una grande e stranissima città come quasi tutti i paesi e quasi tutte le città. Il liceo che frequento è il più importante e grande della regione ed è a Torino, dove sto tutti i giorni quasi tutto il giorno. Vado a scuola lì, pranzo a casa dei miei nonni materni che abitano vicino all'ufficio dei miei, un laboratorio grafico, dove spesso passo i pomeriggi a studiare e giocare e chattare e scrivere e stare al pc, e. 
Poi la sera torniamo a casa, quando i miei hanno finito di lavorare. 
E a casa: la mia camera. Che condivido con mia sorella. È La Mia Camera: la Vivo molto, è un po' il mio mondo, il mio posto (invaso a intermittenza), il mio tempo (invaso nei miei spazi).
Ci vivono il mio stereo, la mia musica, “i miei quadri”, il mio lettino, il mio telefonino azzurro puffo con un pandino (o un'immagine del Che anche) come screen saver, la mia scrivania, il mio pc, “la mia chitarra”, “i miei libri”, i miei vestiti, (a volte ci mangio anche in camera mia), ci vivono i miei peluche, ci vivono i miei pensieri liberi. 


Ho letto/scritto una storia ieri. 


C'era qualcuno che aveva capito tutto, o quasi tutto, ma non se ne accorgeva, non lo sapeva. Forse questo era anche o solamente un modo per aiutarlo a rendersene conto, per dirglielo e/o farglielo capire. 
Cercavo di capire anche cosa stava succedendo, in/a me, te, Noi. 


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Ero di passaggio in cucina. Dicevano in un film che guardava mia sorella: 
"col tempo le cose in cui si crede sono sempre meno, ed è sempre più difficile credere. Non perché non si abbia voglia, ma perché... te ne capitano talmente tante!". 


Contenta di non essermela persa. 


Dare il senso di essere vissuto ad ogni giorno, ad ogni momento. 


Avevo iniziato a leggere Jack Frusciante. 


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Ricordi... 
Ne ho conservati, ne ho tenuti con me da anni di distanza, di ricordi ne ho quasi soffocati, ne ho rinchiusi in parti di me che anche grazie a loro non ho mai dimenticato. 
Alcuni ricordi cercavo di non tirarli fuori, di non pensarci. Ne ho paura e mi portano troppa nostalgia. 
Avevo provato anche ad impormelo.