SPIRALE CICLICA

Si corre soli. Si corre come cani senza guinzaglio in strade di paesini senza padroni. Eroi per giorni che se ne sono andati come faremo noi con le museruole sciolte, ma senza accorgerci. Ci saremmo portati bottiglie di vino rosso e penne scariche se avessimo saputo. Un cast di attori più che di eroi.

martedì 25 ottobre 2011

Ottobre


Autunno, chetami gli occhi.
Saltelllano impazziti come biglie d'acciaio
tra Parigi e Cinisi
intanto che si fa scuro, s'illuminano insegne
per la pianura pinball. 
E vinco con le mani aperte
e c'appoggio il mento
e tengo le mani aperte
e le attraversa il vento.

Autunno, cheta i bracci agl'alberi;
che la finiscano!
Abbassino queste lor fronde arrese.
Arresta questo danzare, temporale di foglie,
spremiti in verdi e giallo e rossi e marrone,
fanne tappeto dove sfrigolare le scarpe
che mi devo asciugare.
Fanne tappeto di suoni in silenzio,
a scortare.

Concentrati, autunno,
porta il vino alle taverne, per piacere,
ché d'andar di frasca non è più tempo, te l'ho detto.
Gli insetti cercano caldo, cercano d'entrarmi dentro.
Cheta il senso di fame di noi, vili; cheta le tue zampe,
non prenderti tutto.
Sceglimi tu le foglie da raccogliere e appender in casa
e quelle accartocciate: da mordere, come salatini;
da calpestare come da bambina quando erano passi grandi da l'una all'altra.

Non sei l'estate piatta;
non sei inverno silente
nè una primavera che sboccia.
Hai il profumo del fumo di caldarroste con sale
da scartare per saper del destino.
Sei ottobre:
sei nata fragile,
hai gli occhi umidi
e mi hai donato le stagioni, tutte insieme.

25-10-11
16.16


giovedì 20 ottobre 2011

Chiediti perchè


Delle volte mi stanco, tremendamente mi stanco a vivere nel mio mondo di carte, pescatori e suonatori di fisarmonica dove Paco m'insegna il biliardo e io mi vesto di colori diversi tutto il giorno; arrampico ulivi e faccio il vino. Quando mi sento così vorrei te vicino con un campari&gin o una tisana, su un divano o per terra. Anche in silenzio. 



Ho le mie buone ragioni: da qui ti penso sempre e adesso ho voglia di scriverti.

Quando m'incappotto d'imprevisto e ti vengo a suonare il campanello come fossi sirena tu mi inviti ad entrare, mi trascini per mano nell'ampio, caldo soggiorno del tuo quinto piano con ascensore. Ci provi banalmente ed io perdo quel po' di stima che ti ho riservato. Inizi i tuoi monologhi sulle mie fragilità ed io te ne propongo una evitando di chiederti di tacere. Tu continui ad oltranza, senza riuscire negli intenti di nessuno. E poi ci assopiamo entrambi, in un modo o nell'altro.

Oppure guardiamo un film sul divano a scomparsa e tu provi, a non provarci banalmente. Mi potresti quasi continuare a risultare simpatico quando conoscendoti meglio inizio a sentir appetito. La curiosità diviene istintivamente possesso e finisci a detestarmi. E io te. 

In entrambi i casi finiamo "insieme", ma finiamo. 
Così invece non siamo mai cominciati. Pensa che meraviglia. 

Magari, invece, passando da casa tua e scorgendo i titoli in lingua originale della tua libreria potrebbe distruggermi un'insostenibile forte attrazione e tu mi respingersti in preda al panico o al pensiero di un'altra donna.

Oppure potresti innamorarti perdutamente di me e battezzare la tua gelosia col mio nome di preda in una tempesta di dubbi che ci stenderebbe entrambi. 

Se poi mi tramuto in me stessa non ti vado bene affatto, inizi a metter su il broncio, fingerti ostacolato in qualcosa che non sai decifrare. 

A volte sto ferma e mi faccio attraversare, aspetto che passino tutte le parole e di vederle allontanarsi dalla memoria. Poi, provo a richiamarle e stuzzico solo le più affezionate che mi ritornano dentro. 
A volte penso che se un giorno mai a qualcuno importerà come vivo, davvero, e s'affamerà curioso sarà a lui e non a te che i miei quadernetti a righe rimarranno preziosi. E magari prenderà per buona questa mia bella e strana solitudine e questo amare, tutto. 
Ogni volta che hanno provato a togliermi dalle unghie le pagine mi hanno ferita. Devo poterle sfogliare e macchiare.
Non dico così come sto neanche a mia madre anche se le telefono tutti i giorni. C'è sempre quel modo di modellare i tabù come se mostrando di non cadere non si vedesse scomparire la testa, come se improvvisamente si sparisse sul serio. 
Io e i miei sguardi storti no, ci distinguiamo. Certo, quando si è tanti, occhi, è complesso mantenere la giusta attenzione. Poi oggi c'è chi non ce la fa neppure in due. 

Eppure io non sono ancora arrivata e non ho ancora perso. Mi dicono da tempo che a forza di queste stanchezze arriverà presto il giorno in cui alzerò una bandiera nuova, l'ultima, bianca e vuota come quegli occhi storti saran diventati. E, impassibile, dichiarerò impossibile tutto non per stupore, meraviglia o rimpianto, ma per cecità, inerzia. E indifferenza.
Anche tu me lo ripeti anche quando le tue occhiate mi dicono tutt'altro. 

Mi dicono, tutte le voci ingombranti, che la fragilità non si mostra, non si deve, come l'insicurezza non sta bene.
Me lo dicono e stanno zitti, ma non ascoltano ugualmente. Ecco perchè tu. 
Ecco perchè voglio far sentire a te la mia sinfonia per cui mi tocca scrivere spartito a tutta l'orchestra.
Minimale. Voglio un palco minimale e a fare il mazzo tanta penombra, tanta così. Durante la partita racconterò la mia storia di ciabatte sbattute e bronci al mattino come croissant.

Mi trovi sempre al confine tra il lasciarmi andare a questa follia e quell'altra caduta, tuffo nel vuoto che c'è.
E' un'urgenza che sento - dici bene - quella di questa passeggiata da equilibrista nel circo di animali, segatura e maschere dal sorriso sgualcito. Ma da soli è ancor più difficile persino trascorrere un'ora, figuriamoci tutto. Soprattutto, sarebbe stupido. Stupido, restarsene isolati a isolati distanti se hai capito o ti ho in qualche modo raggiunto. Stupido, non battere i pugni sul legno di questa mia croce. Non percuotere la porta bloccata, blindata. Silenziosa. Non sedersi e sedurci con una storia che ti coinvolge. 

Chiedersi aiuto è un'altra di quelle finestre dai vetri negati, quella che spero tu decida di aprire per leggermi le labbra trovandomici dietro, ora che sto qui e non ci sono momentaneamente più filtri da the.



 

Sì, io ho le mie storie, i miei sogni e tu la tua vita di impegni; non mi parli, non mi cerchi, resti lontano e tendo a perdermi, nel rimandare. Sono giunta dieci o venti volte qui restando zitta per portarti il raccolto di risposte che mi hai chiesto anche se oggi so che non devo farlo per forza. E mentre parto per uno dei miei film già ti sento annoiato e fai tutt'altro, eppure è evidente. Ti sei preso in casa una sbagliata però non mi hai mai in fondo creduta diversa. E anche oggi lo ammetto che non ho tradito me stessa nè la tua fiducia nel letto di amici. Se esci da questa tela in cui caccio coloro coi quali prendo un caffè inizierai ad odiarmi perchè la disperazione è talvolta più difficile vederla fuori che viverla impastandosi in mezzo.
Devo spiegarti che sto scrivendoti una lettera in una lingua non mia, ma lo sforzo che faccio è un delirio comune e lo puoi toccare anche tu, qui. 
Posso darti la mia natura; non voglio cambiarmi; non posso biasimarti, piccolo, ma non piangere per appropriarti della mia libertà. 
Tu e io siamo un mix acido che fredda il sangue e ci scalda in modi molto diversi. Portiamo avanti questa commedia per non dileguarci e perchè comunque non saprei fare a meno di te. Non c'è più bisogno di urlare e forse nemmeno di cambiare verso. Se diventeremo bestie d'accampamento non me lo perdonerò, non lo chiedere. 

Il giorno che hai provato ad uccidermi ti ero di fronte e ti chiedevo di comprendere qualcosa che io non ero riuscita. Tu hai sparato per paura ed io ho sventato il colpo per un soffio. Quello prima di un orgasmo. 
In apnea per un istante. Ma poi è emerso cos'era stato: mi stavo innamorando di nuovo. Mi capita spesso. Può iniziare con una camicia sdrucita e un cappello ricolmo e poi con questa gente non si sa mai come vada a finire. Certo, come stupirsi? ti sembrano tutte sciocchezze e per me sono bestemmie. Ma sei tu che rifiuti di inquadrarmi. Ti ostini a cambiarmi il ritratto in camera da letto e io appena m'accorgo riappendo le mie cornici colorate e ci aggiungo su foglietti con cui allora, stremata e offesa, t'insulto a quadretti. Provi ad ammazzarmi tutti i giorni e il mio sangue ce l'hai comunque davanti, ma non t'accontenti. Non hai più pallottole in canna, tesoro. Non c'è più tempo per giocare a chi ha vinto, scappare rincorrendosi da una stanza all'altra e appenderci a schiaffi alle mura per fare l'amore quando l'attrazione ci scorge distratti. 


Ho rotto tutte le finestre di casa, ho lanciato le stoviglie un po' ovunque, ho infilato le posate nei capelli della bambola di porcellana sulla tua poltrona. E' di là e t'invita ad uscire. 
Io ho da fare altrove. Sarò lontana per poco. Dopo, verrò a vedere come stai. E mi risparmierò un "mi dispiace". 

Mi svuoto. Mi succede ogni volta che ti guardo.
Come posso sorriderti in fotografia? Te ne ho imbucate quasi diecimila nella cassetta della posta chiusa e riaperta solo con i tuoi conti.
Vengo da te e te lo giochi al flipper, il mio sorriso.

Vedi, quello che ci è successo mi ha fatto un po' impazzire. Però un giorno forse a papà tornerà in mente quando non c'erano conigli e cappelli e allora verrà a prendermi e io gli rinfaccerò tutto in quel sorriso. Lui proverà a piangere e io gli farò di no con il dito. E andrò via ripartendo come non posso fare a meno che sia.
Trovo casa dappertutto, non ho colpe. E' il mio paradosso stonato. Vedi, Alberto vorrei ignorarti, ma m'hai consegnato le chiavi anche tu. Vorrei potessi vedere la mia collezione. Gli altri miei sposi sono tutti in terra e nonostante questo resto nei miei due stracci, come prima. Ho giusto 400 cent con me per una matita con cui legare i capelli: è la mia pagnotta di vita.
Vorrei augurarti di disilluderti un po' meglio. Sarà tutto più facile dopo, vedrai. 
Non ci riesco. Ti sto dicendo tutto un'altra volta e magari non succederà niente. Lorenzo s'è scopato l'ennesima notte di stelle che non cadono mai. Tutto questo per me non è giusto e io voglio un bel giorno scostare le tende e dirlo, per essere parte di questa poesia dalle tasche bucate che chiamano vita fin troppo veloce perchè sia vera.

Voglio rientrare nel tuo giardino di piante incolonnate. Tu puoi aiutarmi a potarne una. Devo cambiare posto a sedere, colore di capelli, odore: in questo treno friggo seduta e ho bisogno di strada anche se mi barrico in casa e mi dico che aprirò solo a te quando mi porterai la tua porta. 
Ho paura di averti sparpagliato già troppe carte e che non bastino perchè a me non è bastato giocarmi anche te. 
Vorrei compiacerti nel confidarti che come mi hai baciata tu non ha fatto nessuno, ma temo perderebbe di senso se dovessi poi dirti dell'unico abbraccio d'un altro e del sonno per mano e del motorino per i fossi a scivolare piano.

Non so che farai. Se riderai o niente, se sei ancora felice e continui a non volermi vicina di banco come ti sperticavi a suggerire l'ultima volta. Nel tuo tribunale avevi una camicia bianca e occhiali scuri. Non so nemmeno se mi hai vista, ferma, dall'altra parte della strada a osservare il tuo sorriso deficiente, ma non mi sono agitata e qualcuno ha oltrepassato la strada per chiedermi come stessi.
Io ho detto che stavo preparando il mio circo e avevo finito la segatura: avevo bisogno di sogni da bruciare. 
Poi, a casa ho bevuto un goccio, ho tirato un calcio a una sedia, mi sono addormentata per non scordare come ti avevo visto.

Ho qui un cacciavite per far girare le idee e voglio il tuo pensiero. 
Intanto che non c'eri ho camminato un po'. Parigi è lontana, ma oramai ci so arrivare. Parigi è vicina e tra un momento la potrò toccare, ma vorrei mi prendessi la mano.
E' un altro dei miei giochi in codice binario, non perdertelo. 

Eri troppo e non ero pronta. Avevo solo il gessato che t'avevo rubato dall'armadio, ma non il cappello e la pistola.
Sento che mi manchi e ho bisogno di te per riordiarmi i capricci e perchè tu mi pettini i pensieri quando sono stanca e la luna mi sorride e fa la furba.
Mi serve guardarti muovere e le tue smorfie, le desidero tutte. Devo viverti per raccontarti. 
E raccontarsela è l'unica che ci rimane, perchè la Storia sia. 
Ne avrai cento tra le mani tra le tue risposte giuste; questa, lo sai anche tu, è sincera in mezzo ai "riguardati". E' la mia bella, bella barchetta di parole che se finisce in acqua si scioglie e diventa carta da zucchero.



sabato 15 ottobre 2011

Vengono, vanno, ritornano.


A volte ritornano;
vanno, vengono, presumendolo loro spettante.

Vanno, senza che tu possa acclarare come,
com'han fatto con la stessa camicia a arrivare. 

Vengono per giurarti che son lì per andare;
ancor'un inchino, ultimo filtro a fumare 
e poi via.

Partono e partono, arrivano
senza vedersi, poi vanno,
e la volta che son lì per davvero
nella neve non viene mai. 

Arrivano e vanno, come monete
che scambiano,
tenenendosi in tasca talora anche troppo. 

Vengono, vanno, incontro su piazza, 
poi fan per tornare,
ma vanno e non seguono
il tuo continuo passare. 

A volte, intanto che progettan d'andare,
tu al pozzo segreto del biasimo provi attinger colore,
ma mestizia è abbastanza da sempre
e d'altrettanto è fuor che codarda; tendenti all'attrarsi
son viste che copri, per tenere protette, incornici;
e incurante l'incedere incide inferendo ogni giorno di sè.

Ci sono volte che s'affacciano
a donare un'occhiata, 
quando ci si tuffa esangui e esaltati
restando in principio già all'erta,
restando; restando del tempo con te.

Certe volte mentre vieni e poi vai, t'accompagnano
cullandosi fin quando gli arrivi dinanzi
e s'accorgono
che per l'incontro debbon destarsi.

E ci son quell'altre volte che restano 
e non se ne capisce un motivo
che dipenda da te.

Credi di intuirne il profilo,
ma le ombre dispettose stupiscono
sotto il porticato che porta al museo
e vengono, vanno, ritornan fruscio.

Restano accanto, di sfuggita ogni tanto,
sembra sempre che ridano, t'accarezzano in capo,
ma senza altri perchè.

Vengono e vanno e lo fanno
in notturno,
per un loro percorso
che non abbisogna di te.

Vengono e vanno,
entrandoti in casa comunque
e ogni giorno,
filtrano e flirtano col quotidiano sapersi
senza farsi conoscere
or, mai.

A volte con un muoversi lento
impegnano tempo, quasi sognando
e intanto
d'impercettibile attrarsi
a piccole dosi s'iniettano
impressionando il profondo
che hai.

A volte sono fugaci,
vengono e vanno nel tempo d'una partita
a biliardo, tra amici;
ma senza whisky.

A volte non vanno via mai.

A volte attorno a loro è così limpido
che si fa vuoto
e in un'estate affondano
e cambiano forma, diventan corallo
e in fondo non ci sono più.

Ne inventi frattanto, t'inviti nel parco
al reincanto,
t'imbatti sbirciando
dal vetro che tien dentro il frastuono,
nel tempo d'un tuono si danno già un tono, 
tu pensi che intanto così tingono il fondo,
vengon come vanno e va bene così.

Vengono come su lastricati in ciabatte
e sciarpe al collo:
scivolano, come se non ci fosse altrove.

Vanno e non sanno
che stanno giungendo;
non vorrebbero andare,
ma sei tu che lo chiedi
ché quei loro pastelli, lo vedi,
non ti si confanno.

Arrivano e non te n'avvedi,
poi arrivano ancora,
dicon qualcosa
e ti insegnano come si fa
ad arrivare in giorni tranquilli,
sperduti, aggrapparsi a un'occhiata,
ed andarsene senza falsa pietà.

Vanno lontano una volta che si è fiutato di loro
e rifiutano ogni altra certezza
quand'è inverno e basta una brezza
d'armonica
a gelare dita e caviglie
per farne poi briglie
e non correre innanzi,
non fermare chi va.

Però qualche volta vengono di cappello straniero
e quando tornan per caso
ad affacciarsi al tuo viso, scopri sorpresa
che ti somigliano i loro giochi di luce
che si sguinzagliano in giro, coriandoli,
alchimie di cui rimane il profumo più vero,
profilo più umano,
ed è allora che passione s'inventa ed invano introduce
senz'empietà.

Restano per sempre quando avviene il miracolo
che ne concentra il respiro in qualcosa
ch'è dentro;
ma loro vengono e vanno tra città come amore
ch'è stato e domani se n'andrà.

Vanno, vengono, giocano
a prendersi, rincorrersi,
perdersi come bambini;
finchè si fermano a baciarsi
un pomeriggio intero
su una panchina cui tutt'intorno corre.

Quando vengono in amicizia
e chiacchieri alla luce dei fari di un'auto
ci si strofina in teneri abbracci
con presagio d'incauto.

Se capitano per legge e ti ci perdi,
con faccia innamorata non tradirti,
abbandona il tuo museo di resistenza
mentre abbaiano in stanza,
dopo un pomeriggio sull'erba.

Se alla fermata d'autobus di città
prendendo un pennarello rosso dalla borsa
alzi il viso e scorgi il modo
di buttar giù ciò che contieni,
sappi:
ti può capitare t'escan di bocca poesie sparse.

A volte arrivano come giro di giostra, inerme
ascolti la favola che ti raccontano;
mantengono il loro campo per una partita, una sola,
in cui ci si passa il sole come fosse una stupida palla
e si scambiano i sensi che cambiano i versi
di procaci frecce, precoci bersagli.

E le volte che s'intravedono,
da distante,
mentre non te l'aspetti,
resti ad ascoltarne il moto
in una mansarda silente di voce
per sentirti vicino a quel loro cielo.

Ci sono volte che non tornano
mai, mai, mai,
ad una camicia bianca di mattino;
neppure se cerchi triste.

Vanno, di testardo andare vanno
e poi è naturale ritrovarsi
quanto è stato ingelosirsi.

Vengono e si prendono mezze giornate a fingersi lucertole
su scale
e sere di luna in macchina a crescer come rosee
al telefono per ore.

A volte quando sei lì che con l'occhio
incroci il binario che ti fa ripartire
ti dici che non volevi scappare
però sai che non c'è più altro da dire
se non far andare.

Quando compaiono davanti al fuoco
e rompono coi pugni gli specchi
devi ascoltare il rumore che fanno,
sdraiarti sul loro letto due ore,
quindi vederne l'immagine, in arte,
mediamente sbiadire.

Certe volte l'inganno è più lieve, 
ci caschi, capisci con mano a rialzarti 
ché in fondo ti vogliono bene.

Certe volte invece si fregiano
di fregarti, fossero matti,
si fermano accanto
per tutto il tempo
che serva a servirti
finchè non ne scopri il capriccio
e romba tremendo il loro bisticcio.

Ci sono e, nel corteggiarsi a vicenda,
ne aspetti fremente l'arrivo,
infine nella pioggia non balli, tua ammenda:
appoggi la testa
ch'è china
facendo cuscino della chioma lor fina
pre scritta,
arricciata,
ad ogni buon'ora d'imbroglio privata.

Qualche volta si compromettono
in promesse, senza mostrarti le carte,
quindi si annaspa nell'atteso riscatto
che dà loro conferma e sentenzia di parte.

A volte ti guidano e sono come
abbracci
donati e vietati, tatuati
nella tempesta che arriva: guardingo li spii 
e un po' li sfidi,
poi ne diventi geloso,
ti fidi.

E riparti
in spazi a volte tanto affollati
da apprezzarne giusto una notte
su di un treno dondolati.

Misteri intensi e domande folli
di cui t'insisti nel dipingere contorni,
trasparenti, ineffabili,
con dita intrecciate a colori spugnosi
che resteran sempre primi; tamponi,
sette anni dopo torneranno buoni.

Se ti accompagnano per un giorno
appendi sguardi al finestrino del tuo viaggio
e li hai già lasciati asciutti.

Qualche volta fanno brevi comparse
tragicomiche,
con le loro serenate nude alla finestra,
ma tutt'intorno si fa cupo quando pattinano via
nel fulmineo tempo d'un flash.

Fai in tempo a scriverne il nome per tre volte,
in silenzio ti limiti a immaginare d'amarne le smorfie,
di segreto in segreto, a seguirne le mosse.

Da prima ne intravedi l'imprevisto
che ti resta incagliato tra le mani d'ogni aurora,
nel piglio appena sveglio, di ora in ora,
che ti sussurrano dalla stanza lì vicino
evidente essergli rivolto e un po' assassino, ma come gli acquerelli
vengono, confondono, sfumano sbiancando
e non tornano mai brilli.

A volte t'accorgi che esistono
per poco,
ché si è lì pronti ad andare,
solo più in tempo per l'assenza
e per scambiarsi una speranza.

Quando nascono più sei bimbo e più alta è Illusione
che si portino dietro ombre giganti e colori tanti;
stanno lì inconsapevoli, ti scrutano 
con occhi enormi, talvolta a sostare nel cuore son lenti,
poi sfuggono avanti, corrono, cambiando disegno.

In cortile se nell'aiola ne sfiori il ritratto, e non badi al contorno
la terra sgranando
apprendi di che sanno
e ti sorprendi
ad appiccicar le foglie cadute, raccolte
sui fogli di carta
e battezzando le mute, a memoria.

La bellezza è un vestito che bisogna sapere portare.
E' amuleto che devi capire a cosa abbinare.
E' un bottino che puoi guadagnare
e perdere,
che si può far chiamare 'tesoro', ma senza valore.

La bellezza è obiettivo o strumento
da imparare a suonare per averne armonie
che non potrà contenere
nè vincere
e nemmeno forzare.

Ma se c'incappi, tocca viverla tutta:
t'avvisa di sè senza fare rumore.

Per una vera, mille sono finte e si mettono lì,
tra noi e il cielo
per lasciarci soltanto
una voglia di pioggia. 




(15-10-11 ore 1.07)

h.n.