SPIRALE CICLICA

Si corre soli. Si corre come cani senza guinzaglio in strade di paesini senza padroni. Eroi per giorni che se ne sono andati come faremo noi con le museruole sciolte, ma senza accorgerci. Ci saremmo portati bottiglie di vino rosso e penne scariche se avessimo saputo. Un cast di attori più che di eroi.

venerdì 27 gennaio 2012

Scacco matto

Siamo una folla e un solo nome ci sta stretto. F. Pessoa.

Entro nella stanza di vetro ogni volta che ti faccio ciao con la mano. Solo dopo mi accorgo che le pareti riflettono dentro per via della luce, sono specchi. Ne guardo i colori come fossero di sfumati diamanti e chiedo: che ci posso fare se mi innamoro in un secondo? che ci posso fare se m'innamoro anche del vento? Poi mi immergo nelle memorie ingrassate; sirene e acqua sul fuoco si scambiano gli accenti ed io ripenso a come da che lo conosco non sia più stata capace di parlar d'altro. 

Le ore insieme mi hanno fatto il nido in cuore e tornano e scappano mascherandosi da ricordi diversi di quel pomeriggio in una brutta città. Magari questo tempo stesse qui: tutto sotto vetro, a farsi guardare; manciate di polvere magica che per riviverla una capriola a testa in giù potesse bastare.

Invece s'allontana, scivola e poi ritorna e mi lascia intera fino in fondo alla sera e poi a scegliere gli attimi e sciogliergli le catene e tentar di rimuovere le frecce impreparate che han fatto centro senza bersaglio, persa nel rigirarle in testa si può dir in eterno. O almeno quel po' di anni che m'han concesso e la clessidra sbriciola uguali mentre ci sono date che iniziano all'alba e giorni che son tutti di notte; ci son quelli di lei che adesso mi parla insieme e quello di oggi, con il caffè non preso divenuto sparviero gracchiante col becco vuoto. 

La chiave per i segreti del mondo ce l'avevamo sempre avuta qui, sotto il tappeto dove si va a infilare la polvere. 
E' tutta la vita che dico che vorrei fare l'amore con un vicino di casa, ma sbaglio forse sempre indirizzo dove costruire mura sottili, dove mettermi ad abitare. 

Ma pure se, come dite, non mi avete presa in giro con quest'illusione assurda che la vita sta lì fuori che m'attende, il cappotto non lo metto, sento freddo, forse piango. Tengo pronto il divano per potervi accompagnare tutte quando, prima una, poi l'altra, a volte due per mano, busserete alla porta piano piano. E non gridate giù in strada, per chiamarmi, ché non s'accorgono mai, ma se dovessero per caso vedervi, nel silenzio vuoto che loro non riempiono di vernice, si lamenterebbero del fastidio, tutti i bei fantasmi. 

Sul pianerottolo tra scatoloni e scatoloni pensano di aver in mano le conquiste d'una vita, gli operai ubriaconi. Non sbagliate porta, voi, distratte. Venite pure a me e beviamo forte perchè siamo vicini, eppur da me sembra che tutto sfugga e per tenerlo dentro non basta nè lo Scotch, nè il bicchiere. 

Ballatemi intorno, non siate caute, perchè possa dimenticare. Sedete qui a conversare, ma diciamoci poco di questi segreti che san tutti, pesci che ho pescato. Che li avessi già sugli scaffali di questa stanza - che lo vedete come ci abbracciano, - tra consumi e costumi, l'ho capito dopo. 

Che poi, ve lo confesso schietta, a me di queste grandezze eterne non m'importa d'altro del tentare di sapere di una goccia di pianto sul suo volto; del provare a capire la punta del sorriso suo timido o spavaldo; del dire e dire di dita soldatine a trasportar la penna morta dentro il ghiaccio e giù nel caldo. 


Ma io m'arrabbio inquieta quando i miei amori non partecipano al gioco, stanno enormi e fermi con la pancia grossa e la bocca aperta, sbadigliando, senza ch'io li possa raccontare, seppur sarebbe bello sentirli già cantare. 

A quell'uomo, lo sapete, ho scritto migliaia di parole, mentre quegli era tutto intento a vivere il suo mondo ed in nessuna della mie lettere, mi rendo conto, ce n'era il senso più profondo. 

Lui mi sapeva al porto, nella mia tabaccheria sognante, dove mi curavo dell'attesa piena di luci, dei colori, del gesto che avrei fatto, delle vesti e di come pronunciare il buongiorno prima che se n'andasse, mai del fatto che non fumasse.

Cento volte credemmo di avere sbagliato, impaurite all'idea di dover per forza compiere gli ultimi tre giorni per arrivare a posare gli occhiali. Cento giorni è arrivato e in sella al fremere delle foglie sulla vetrina di fuori, non lo guardavo in faccia, non gli vedevamo in mano quel niente che qui comperava invano.

I miei trucchi me li tengo tutti, venderemo ancora pacchetti per salare la neve senza scivolare, non cambierà ancora niente, lo saprò vedere, ma lasciatemi alle unghie lo smeraldo su cui chiedere, in preghiera, che anche se il verso è storto e sparso, esso sia puro come alcool al bancone.

La primavera non bussa: ogni volta il mio principe ubriaco è entrato sicuro nella mia libera porta indifesa, ha segnato, chiedendo il permesso solo ai rami.
Guardi, principe, non è vero che il gabbiano s'è mangiato tutti i fogli di grano che ho seminato in terra come segnali stradali. Sì, ha sempre e ancora fame, ma ha volato e volato.

L'ombra tra me e la Madonna mi fa giocare con le mani a creare storie e affezionarmi a me, alla follia saetta che corre addosso e torna dentro mentre sogno, mentre invento. Poeti e appassionati come bruchi dentro pagine, scrivendo di buchi il diario proprio e intanto cercando, cercando.
Cercando l'inclinazione giusta per star ancora all'ombra.

Inudibile rimorso è il vostro vezzo, ragazze mie, siete brave così come viene anche se non so quante siete e non vi conterò neanche alla fine. Non vi conosco, ragazze, eppure resto su questo divano sgombro, dove mi siete care, ma non mi fate paura.

Anche lui voglio aspettarlo dentro una tuta da operaia in cui sto bene. Il capo mi paga a giornata, per ogni ora che vivo. Ci sono quelle piogge cupe in cui penso di traslocare e inerme e disperata grido alla finestra che il principe non saprà mai dove ho casa. Poi mi faccio reduce incline a vincer stanchezza di spada. Poi prendo il pigiama come divisa per volare più veloce in fantasie più distanti. 

E poi sto lì a guardar le mie serrature senza spolverarne il sogno, il mito, il tempo nuovo in cui aspetterò ancora il suo pugno inutile verso una porta aperta dal fatto che è primavera d'istinto e mazzo di carte sul piatto.
Gli ho dato tutto ciò che non serviva, non la nostalgia o quel che lui voleva, nè forse ciò che bene vestiva. 

Mentre rifletto, m'avvolgo nell'odore di tabacco e incenso tutt'attorno. E c'è carta da lettere nel retro e qualche penna da regalare a mani capaci di creare quando, annegate nell'ombra del presente, le parole gli diventan vizio da non sapersi negare, quasi gesti per farsi intuire.

C'è come una geometria strana nelle ossa sue e mie quando nell'abbraccio si fondono e finiscono in un quadro composto, compiuto. Guadagno un'altra ora: non inchioderò il principe al pavimento per poi piangergli in grembo. Se vorrà potrà andare, rimanendo comunque mia poesia.

(0.42  27-1-12)
(Suzanne - Leonard Cohen)

(Suzanne - Mia Martini / Leonard Cohen - Fabrizio De Andrè)

martedì 10 gennaio 2012

Molo


Spesso la gioia di vivere ho incontrato:
era negli occhi blu di mia figlia appena è nata;
è nelle rotaie quando su ci sferraglia il treno;
a ogni lettera fu nell'inchiostro, seme nella carta;
era in quel secondo bacio da estraneo sulle labbra;
è nel guardarti mentre soffia libeccio, e bevo vino;
sta sul cuscino, tappeto per un sogno;
è rosicchiata dal mondo di contorno;
sta tutt'austera quando le giri intorno;
gioca da mimo se mi passi vicino;
va sott'al letto, adesso, ché t'aspetto.

E mollo tutto.
A te basta alzar un sopracciglio
per buttarmi giù,
occhio!
Fammi però giocare ancora un po'
ad essere forte e distante.
Sai come ammaliante
è il potere di sè che ci reinventa.
Delle collane che mi hai regalato
ne ho fatto un cappio sfilacciato
e ci acchiappo il mio tempo, vivo,
s'allunga di perle ogni momento,
lo addobbo di vento,
lo spoglio del sangue,
lo bevo ed intingo
sul mio tavolo ingombro.
C'è il diario del giorno,
il libro di turno,
il bicchiere cocciuto,
la foto del viso svogliato che hai
attaccato su uno specchio spaccato.
Ho rotto un frammento,
scocciato, mentendo;
ne ho fatto una scheggia
che ha fatto ormai breccia
sul dito puntuto
che cuciva il vestito:
in-carta.
Ho agghindato di pietre il presente
per restargli ancorata
con mia corazza di ghianda
e farlo più bello
nel diluvio monello.

Ti sto lasciando la mano,
devo dirlo di nuovo.
Spesso la gioia di vivere incontro,
la ripongo in soffitta dove sogno.
Tra bauli annegati in polvere
e profumo buono di vecchio,
di umido ordinato sulle mensole in legno spesso.
Chiudo il lucchetto
e abbraccio la finestra senza uscire
così d'affezionarmi bene
alla primavera che non è.
Mi accartoccio.
So di mare e so di te.
Affogo nella doccia intanto che colgo gocce
sulle dita come insetti che pizzicano
corde del mio corpo trasmutate in strumento
e le canto
sbattendo i piedi
perchè sono i miei capricci e schizzi
per cui ho bisogno d'acqua, di ombra e di un gilet.

h.n.
18.09
10-1-12

(Jono Manson - The power of one)

sabato 7 gennaio 2012

3 - Binario 3

Come se fosse una sorpresa in un cavolo di natale in cui non credo da tempo e poi quando proprio quest'anno respiravo un'aria un po' diversa. Oh, saranno tutte coincidenze e a farci troppo caso mi pare pure di diventar matta. Ma fatto è che, quando si tratta di noi, capitano sempre. Stavo là, a scrivere le basi della mia sceneggiatura, a discettare tra cinismo e annichilamento e poi...! Già con lui è normalmente difficile discernere tra illusione e realtà, ci si mettono pure i sogni e stiamo apposto. Più melensa di così si muore, che schifo! Ora, venendo a cose SERISSIME: io non vedo l'ora di mettere il piede sul predellino di quel treno!! E' che finché non lo abbraccio non ci credo, che poi bisogna vedere "se" lo abbraccio. Sarà l'abitudine a dover porre limiti piuttosto che prendere iniziativa; sarà che mi piace avvertire il desiderio dell'altro;.. Poi però, ecco, non credo che in questo caso lui dovrebbe patire moltissimo, dettagli, ma - a parte gli scherzi - è l'unica persona sulla faccia della Terra con cui, di solito, appena c'è un contatto qualsiasi parametro usuale salta e resta pura, spontanea, vita.
E saltano pure quei filtri che dicono io metta nel relazionarmi e non è vero. Li confondono con l'affetto che provo per la mia solitudine. E' questo a comportarmi quegli automatismi che mi riscontrano da quand'ero piccola nel modo di muovermi, di camminare, di guardare in giro,... 

Mi appendono addosso vesti non mie. Io, la comunicazione la amo. E ci gioco insieme. 
Ecco perchè poi mi capita di pensare che a volte i presentimenti andrebbero indagati di più nella loro sostanza senza credere di saper tutto basandosi soltanto sui propri giudizi. Il bello è che tutto ciò lo dovrei ripetere anche a me stessa, visto che con Paco faccio il contrario.
Sì, lo so, quando si "sente" una cosa, bisognerebbe farla! Non pensare al perchè non l'ha fatta lui, ecc... 



(Pino Marino - Binario 3)
Gli altoparlanti della stazioncina di provincia restano immobili in mezzo alle scritte vandaliche di insulti e ai numeri di telefono. 
Chiamano il suo treno. 

Lui si muove nella stazione con sicurezza, praticamente a suo agio: un colpo di tosse; uno sguardo al display per conoscere il binario ma il suo treno non è ancora segnalato, allora al tabellone; raggiunge il convoglio; sale. 
Lei: un paio di foglietti in mano che ricontrolla di nuovo, ed arriva alla carrozza, la sceglie; poi prima di salire chiede conferma della destinazione ad un tipo che sale con lei, e sorride. 

Dal finestrino, durante il viaggio, gli occhi di entrambi notano in mezzo alle campagne l'uomo che cammina proprio tra due campi, dritto per la sua strada, con le mani dietro la schiena e accompagnato da un cane che gli scodinzola intorno. 
Hanno la stessa luce nello sguardo che inquadra. Non si diranno mai niente di quell'immagine.
Ora sono in attesa di prendere la loro coincidenza: incrocio di strade.

Mi trovo sul treno e ho provato ad aprire il mio libro per cercare di far passare questa prima mezzora più rapidamente, ma soprattutto pensando il meno possibile. Ogni tanto do un'occhiata fuori, mi osservo intorno, guardo le mie ginocchia e i piedi, spostando gli occhi dalle pagine della Pivano che sfoglio sottolineando con la matita qualche frase. 
Anche esser salita su questo treno è un gesto che per me assume tanti significati. Quello di ricapitare su una ferrovia dopo secoli, eccezion fatta per qualche tratta Ciriè-Torino, per esempio. Quello di prendere e, di punto in bianco, “partire” per raggiungerlo, anche. Seppure stavolta sia lui ad essere arrivato qui, a pochi km da dove vivo.
Mi accorgo che non riesco a concentrarmi troppo sulle righe che sto leggendo; mi perdo invece nel labirinto di porte che scattano immediate nella mente e sono frastagliate in cartapesta e sfuggenti come la distanza tra la frenesia che assume la voglia che ho di ritrovarci, ora che so che sta capitando, e la tranquillità contraria e sfacciata con cui affronto questo tragitto. Alla fine il libro un po’ mi prende, almeno per via dell’argomento. 


Adesso devo imbroccare la coincidenza col secondo treno nei cinque o sei minuti a disposizione da dedicare ad una stazione nella quale non ho mai attraccato prima e quando scenderò a quell'altra sarò giunta alla mia destinazione: lo rivedrò, dopo due anni e mezzo. 

Non si creerà così, come niente, l'estasi del primo incontro: ne sono certa per tanti di quei motivi. Mi viene da considerarlo quando, saltellando tra spizzichi di ricordi, ripercorro qualche tratto del nostro breve eppur intenso vissuto insieme. Non saremo soli, ma non è certo solo questo. Semmai è per tutto quel che è successo dopo, per i miei errori e le mie fragilità, i comprensibili motivi di renitenza che  lui potrebbe avere e le idee a passargli per la testa che non ho mai avuto da conoscere. "Non vengo lì per questo. Vengo lì perché non me ne frega niente di cosa succeda, del luogo, del giorno, del modo, ma solo di stare con te (e con gli altri amici) per un po'. E sì, ho voglia di abbracciarti da tempo".

A Cavallermaggiore salgo sul secondo treno senza riscontrare difficoltà e sogghigno auto-ironica dell’ovvietà che sottende il fatto, e del mio bisogno di conferme inutili esasperato dall'aver conservato con cura l'emozione del partire per le mie mattate in giro, risparmiate solo per qualche tempo.

Giù, in galleria, qualche scalino e risalgo a controllare il tabellone delle partenze, il binario. Gradini, sottopasso, gradini. Rinnovo la mia interrogazione verso un ragazzo che adesso è davanti a me e avevo intravisto poco fa intento a contar le rotaie aiutandosi con le dita, in modo curioso. Questi è già sul mio treno mentre mi accenna un sì con la testa, prima ancora che io domandi qualcosa: “va ad Alba”, sorride. Anche io. Sono trascorsi sì e no due minuti quando me ne riaccerto pure col controllore che, soltanto 
sporgendo una mano in un gesto rinnovato a memoria, mi sollecita a corrispondere il mio titolo di viaggio.


Ho cambiato posto a sedere rispetto a quello su cui mi ero appoggiata per la verifica del biglietto. Mi sono tolta il cappotto e ogni tanto sorveglio il numero di fermate che mancano alla mia e non leggo il libro, perché tanto adesso è inutile e nemmeno scrivo. Ascolto il mio lettore mp3 e basta. Poi curioso nella borsa e sì, in conclusione, mi appunto sul quaderno due immagini rubate dal treno corrente.
Sono arrivata.
Scendo e so di conoscerla bene questa catena di sensazioni: quella che mi conduce in stazione; quella del tempo sul treno che è cocktail shacker di tante; quella d'avviso, destra e istantanea, giunta scoccata quando adocchio il cartello che indica la fermata precedente la mia; quella impaziente che concede secondi alla frenata affinché il mio treno si plachi e spalanchi le braccia, lasciandomi libera, mentre io raccolgo oramai la risposta ad uno di quei giochi abitudinari che faccio e che si traveste anch'esso, stupidamente, da 'coincidenza', rimanendomi forse per tanto a girovagar nella testa: la canzone che ascoltavo mentre sono arrivata. Era "Lady E". Senza farlo apposta.

Prima di uscire sul lato della strada, mi guardo attorno come a volermela scrutare un po’ questa stazione incrociata e da adesso mia. A prescindere da te che in questo pomeriggio non sei ancora qui. Ascolto Last Leaf. Poi metto via il lettore e parlo al cellulare, dico che sono arrivata e che ancora una volta mi sono rivelata meno imbranata di quanto tenda a dare a vedere in principio. 
Mi soffermo in fronte all’ingresso della stazione, sia perché loro mi raggiungeranno ed è il posto migliore per trovarci subito, sia perché passeggiando dall'altra uscita, a canzone finita, sono arrivata proprio qui. C’è un signore accanto a me e d'istinto mi persuade il convincimento buffo che potrebbe somigliare proprio a Paco una volta invecchiato. Verrebbe quasi da supporre che le chiacchiere della mente  stessero intanto scrivendomisi a chiare lettere in viso in quanto quello mi si approccia e mi fa “ciao, come andiamo?”. Non contraccambio confidenza, così come mia madre vorrebbe, ma soprattutto perché qui siamo in Piemonte, non giù, ed è preferibile usare le dovute cautele. Che poi, investendo in questa logica ‘qui’ non sarà mai sud. 
Il tempo di una decina di parole al telefono che il clacson dell'auto con cui arrivano Paco e i suoi amici sta già strombazzando insieme alle loro voci, come potevo aspettarmi. Loro, non sono mica piemontesi.
Un rapido saluto a chiudere la conversazione ché voglio accompagnarli i nostri occhi pronti ad imbattersi. Non faccio in tempo a raggiungere la portiera che Paco è già sceso, coi suoi occhiali da sole da sfottere.


"Scema!", e ad abbracciarmi è innanzitutto la voglia di vederci che percepisco anche sua. Precisamente il dubbio che mi ha attraversata negli scorsi due giorni, fugato dalla prima impressione. Ma noi siamo fatti così. Ho capito di aver fatto bene a venire.


(Binario 3 - Samuele Bersani feat. Fabio Concato)

venerdì 6 gennaio 2012

La piccola chimica

Il mio prof. di chimica di prima liceo, in classe, ci terrorizzava tutti. Elargiva voti con sistemi di calcoli assurdi; poi ti chiedeva di preventivare il giudizio che avresti meritato e se la tua "proposta di voto" arrivava vicino a quello effettivo, in un intervallo di + o - qualcosa, ti alzava la valutazione di un pelo. Era capace di scaricare la penna vomitando carichi di 'zero' sopra i fogli delle relazioni scritte sugli esperimenti fatti in classe, ridacchiando mentre ti restituiva il compito, ma se più del 50% degli studenti della classe aveva ricevuto un'insufficienza eliminava il voto per tutti e rispiegava la lezione per poi farci rifare la verifica. Dava un soprannome ad ognuno e durante le sue ore aveva così anche rivoluzionato l'appello 'istituzionale'. A molti di noi restò marchiato il proprio nomignolo, usato a quel punto pure tra compagni, per l'intera carriera scolastica ed anche oltre.


Io in chimica, come in matematica e in fisica, ho sempre fatto sostanzialmente schifo.
Per il prof. ero l'"idealista" e ogni lunedì mattina sentirmi ripetere i suoi sistematici e testardi inviti al pragmatismo mi indispettiva. Talvolta abbiamo anche avuto dei forti scontri in aula e lui ne usciva ogni volta con una feroce espressione compiaciuta e orgogliosa stampata sul volto.
In fondo l'ho sempre stimato perchè naturalmente intuivo la sua voglia di stimolare i suoi ragazzi.
Una volta, non so più a proposito di che cosa fosse partito il discorso e, in un cambio d'ora, mi rivelò anche lui la sua stima nei miei riguardi. Mi fece piacere anche se era una cosa che sapevo già.

Qualche volta, grazie anche ai suoi astrusi calcoli sui voti, raggiunsi il 10 in chimica. Io, per quei 10, non posso negare che sentii il suo stesso orgoglio immersa nella sensazione netta di una sorta di sfida che sembrava sempre essere in gioco tra noi. I miei genitori, invece, quando portavo a casa quei 10, non ci potevano credere e comunque criticavano con scetticismo quel suo passare da un giorno all'altro "da zero a dieci" nel valutarmi magari pure sullo stesso argomento. E ai colloqui coi genitori lui sottolineava questi miei "salti", tutto contento e soddisfatto, finchè mio padre una volta si seccò al punto da aver a che dire.
Il mio orgoglio, quando riuscivo in chimica, non era nemmeno tanto dovuto al risultato, ma piuttosto al fatto che quel segno rosso, rigorosamente cerchiato chissà poi perchè, ogni volta mi ricordava il motivo del mio trascorrere le giornate dentro a un liceo scientifico e mi rincuorava sulla mia decisione testarda che era andata - tanto per cambiare - faticosamente contro tutto e tutti. Ero consapevole da tempo che quegli anni una come me li avrebbe passati molto più 'comodamente' in un altro tipo di scuola superiore.

Il primo giorno di liceo a tutti i membri della "neo-formazione" era stato chiesto, per fare conoscenza, di esprimere ognuno la motivazione che ci aveva spinto ad iscriverci proprio lì. Si fece per alzata di mano.
"Chi è venuto qui perchè alle medie andava forte in matematica ed è stato consigliato dai professori?"; "Chi è venuto qui perchè era la scuola superiore più vicina a casa?": una valanga di mani. Io, che per altro mi godevo ogni mattino le ultime ore della notte alla fredda fermata dell'autobus situata di fronte a casa, pochi metri avanti e quindi lo schiarirsi delle sfumature del cielo dal tepore del pullman con quella radio accesa pianissimo ed il mio lettore cd a sovrastarne rigorosamente l'audio, avevo una faccia allibita a veder quelle braccia alzate.
Alla fine di quell'anomalo gioco "del fazzoletto" rimasi solo io senza aver dato una risposta. Mi fu chiesto allora in modo più diretto quale fosse il motivo che mi aveva condotta fino a quel banco, da me appena inaugurato, e io non feci altro che spiegare la verità anche se poi la voce girò e da qualcuno fui presa per ruffiana e da qualcun altro - più comprensibilmente - come la "scema" che aveva semplicemente sbagliato posto. Ebbene, raccontai come i miei professori della scuola appena lasciata, con l'ausilio di tanto di test e colloqui rivelatori della mia personalità e quant'altre sciocchezze, mi avevano sempre solo riconfermato come, senza ombra di dubbio, avrei dovuto continuare i miei studi con un liceo classico. E lo stesso ritenevano mamma e papà. D'altra parte avevo sempre ottenuto ottimi voti nelle materie umanistiche e non si poteva proprio dire altrettanto di quelle scientifiche. Non solo, la mia passione per la scrittura e la tendenza che già manifestavo all'approfondimento avevano portato la mia insegnante di italiano quasi ad implorarmi di cambiare idea quando le avevo consegnato la mia pre-iscrizione con scritto su "liceo scientifico tecnologico". La prof. di ed. tecnica, poi, mi odiava anche per motivi che esulavano dal mio scarso rendimento nella sua materia e le si rizzarono i capelli al solo pensiero della mia scelta. Il modulo nuovo che mi diedero entrambe per spingermi a ripensarci rimase però bianco, non lo compilai mai.

"E insomma, allora perchè sei qui?" mi disse la nuova prof., davanti alla classe, in quelle prime ore di liceo. "Per sfida. - risposi - Se a scuola, come ci dite sempre sia voi insegnanti che presumibilmente i genitori di tutti noi qui, si va per imparare, beh allora vediamo che riesce a fare con me la scuola italiana. Io di italiano, storia,.. solitamente già ottengo buoni risultati; ho bisogno di rinforzare maggiormente la mia preparazione soprattutto nelle altre materie nelle quali invece sono una schiappa, non sono proprio portata come si dice e su questo non posso che concordare con i miei ex insegnanti. Vediamo, insieme, che riusciamo a fare.".
Un attimo dopo, ci fu qualche momento di silenzio in cui pensai che magari avrei fatto meglio ad alzare la mano ad una a caso delle 'chiamate', unendomi semplicemente alle risposte degli altri. Nessuno si sarebbe accorto e ricordato del fatto che la mia 'motivazione' non corrispondeva alla realtà.
Ma io la mano non l'ho mai alzata a caso. Magari capendo poi di aver sbagliato, anche. Ma mai a caso, tanto per.
E dopo quell'attimo di silenzio ci fu un applauso che non mi aspettavo affatto. Fu da parte dei miei compagni, prima che dell'insegnante che invece probabilmente si unì a loro quasi solo per 'senso d'opportunità'. Sorrisi e capii in quell'istante che quella sarebbe stata una buona classe e che quell'aria di 'inizio'; la naturale emozione dell'attesa di qualcosa di nuovo che sta partendo; quella sensazione, insomma, da "primo giorno di scuola"; la si respirava davvero profondamente in quella stanza, in quel momento. 


Il prof. di chimica qualche anno più avanti morì. Non era più un insegnante del mio corso di studi perchè si occupava del biennio che io avevo superato, ma al funerale che si organizzò a scuola non volli assolutamente mancare. Mi rattristò molto. Banalmente, mi sembrò di sentir risuonare in quel cortile la sua voce insieme alla campana che se lo portava via con l'auto dal portellone aperto come se nella mitezza di quel freddo giorno di giugno stesse schiamazzando ancora una volta quel suo "bisogna essere pragmatici: io sono un pragmatico; tu sei un'idealista, ti ho capita Stella".

In fin dei conti, in chimica ho chiaramente riconquistato la mia grave insufficienza per tutto il corso degli anni di liceo.
Non ho poi ancora mai capito se davvero in questo mondo sia bene essere pragmatici e quanto. Fortemente so, invece, che è di questi prof., da amare e odiare allo stesso tempo, che mi piacerebbe che le scuole ed università italiane fossero piene piene.
Tana per te, Danny. 
Stella, tua inguaribile idealista.