Ragni nel vento
i tuoi rami non mi toccano
il cappotto.
Passo sotto e restano
come grucce inermi
che reggono
il pesante rapido incessante scorrere di veggenti
persi, spinti, spiriti perduti, nulli.
Farciti di noia,
infagottati nell'abituarsi
a non saper guardare.
Di che candore ti sei mascherata, anima mia?
Con quale feroce pulizia?
Di che colore hai le piume, questa sera? Dimmi
Quanto brutta sei, così svestita e straniera!
Sbilenca, che nemmeno sai d'esser zoppa!
Le tue rotaie cigolanti fanno il verso
ai passeri lenti con zampette tremanti.
Tu hai freddo.
Non ti darò tregua,
nemmeno morta
quando Faccia di Tigre
ti racchiuderà
che sarai colle ossa a pezzi
sgranocchiate dal solito topo.
Queste poche foglie marroni
non sono spugne, ma ventose, pupille,
per sturare dagli occhi
frammenti di sogni secondi
a fare i vermi
dirsi presenti in ritardo
e non rispondere
all'appello,
sparpagliarsi in fuga
odor di tartaruga.
Nido o guscio fa lo stesso,
tanto in questo ghiaccio spesso non c'è posto.
"Rapidi! Che c'è da sbrinare ancora i vetri!"
Lo dicevano mamma e papà,
nelle mattine d'inverno
in cui la scuola si faceva tana,
tardi,
col riscaldamento acceso a giorni.
Portavano giù per le scale
le bottiglie d'acqua col fumo
che usciva dai tappi,
che usciva dalle bocche stappate
solo per quei richiami strilli
che neppure i rami allarmati di questi tronchi
spelacchiati e comunque muti
oggi
riescono a replicare.
Io cammino con le mani
e volo ancora
senza ancora saperlo fare
e non mi so fermare.
Hai gambe nude, gelate;
labbra enormi,
labbra stanche,
labbra come occhi
per assaggiare ciò che incontri;
occhi unti. Occhi, molti.
Usali tutti!
Per chiuderli in casa,
addormentarli
e poi immaginarti ogni cosa
pregandola di esistere,
facendo della mente la tua fede.
Lei non finge mai
se srotoli i sensi
e non ci pensi.
Tienimi addosso come il tuo profumo migliore,
come lingua parla quella della mia pelle, scivola e lascia il segno,
mi faccio acerba come sfortunato acino d'uva a gennaio
e ti incrocio incerta come donna mai uscita di chiesa,
colpevole di non esser sbocciata, di sentirsi spaventata da vecchia.
Ti regalo tre bracciali di colori diversi
e ti guardo correre sul posto
intanto che aspetti fine marzo.
12-1-2013
18.03
h.n.
"Non esiste stazione finale, solo valigie dalle quali esce e si dispiega lo stesso io come un vestito liso e lustro, con le tasche piene di desideri, opinioni e biglietti, cortocircuiti e specchietti pieghevoli. Sono pazzo, esclama il ragno, agitando le sue molte braccia" (da: Totem, Sylvia Plath)
RispondiElimina"Non ne uscirò mai! Ci sono due me, ora:
questa nuova persona, bianchissima, e la vecchia e gialla,
e la bianca è certamente superiore.
Non ha bisogno di cibo, è un'autentica santa.
All'inizio la odiavo, non aveva personalità:
era lì, a letto insieme a me, come una morta
e mi metteva paura, perché era fatta tale e quale me
solo molto più bianca, infrangibile e priva di magagne.
Per una settimana non ho chiuso occhio, tanto era fredda.
La incolpavo di tutto, ma lei non rispondeva.
Non riuscivo a spiegarmi quello stupido contegno!
Quando la picchiavo se ne stava ferma, una vera pacifista.
Poi ho capito che quel che voleva era che io l'amassi:
ha cominciato a sgelarsi e ho scoperto i suoi vantaggi.
Senza di me non sarebbe esistita, sicché mi era grata.
Le ho dato un'anima, sono fiorita da lei come una rosa
fiorisce da un vaso di porcellana di non grande valore.
Ed ero io che attiravo l'attenzione di tutti,
non il suo biancore e la sua bellezza, come lì per lì mi era sembrato.
Ho fatto un po' la superiore e lei c'è stata, eccome ---
lo si capiva subito che aveva una mentalità da schiava.
Non mi dispiaceva farmi servire, e lei adorava farlo.
Al mattino mi svegliava di buon'ora, riflettendo il sole
sul suo candido torso, e io non potevo fare a meno di notare
la sua precisione, la sua calma, la sua pazienza:
assecondava la mia debolezza come la migliore
delle infermiere,
tenendo a posto le mie ossa perché si aggiustassero per bene.
Col tempo il nostro rapporto è diventato più intenso.
Ora non mi stava più così stretta addosso, si teneva sulle sue.
Sentivo che pur senza volerlo mi criticava,
come se le mie abitudini la offendessero in qualche modo.
Lasciava entrare gli spifferi, era sempre più distratta.
La mia pelle prudeva e veniva via in morbide squame
solo perché lei non si prendeva più cura di me.
E' stato a questo punto che ho capito: si credeva immortale.
Voleva lasciarmi, si credeva superiore,
me ne voleva perché l'avevo tenuta nell'ombra---
sprecare i suoi giorni a servire un mezzo cadavere!
In segreto ha cominciato a sperare che morissi
per potermi coprire la bocca e gli occhi, coprirmi tutta,
e indossare la mia faccia dipinta, così come un sarcofago di mummia
reca la faccia del faraone, benché fatto di fango e acqua.
Io ero impossibilitata a liberarmi di lei.
Mi sosteneva da tanto tempo che ero diventata floscia,
avevo persino dimenticato come si cammina o come si sta seduti,
perciò stavo bene attenta a non offenderla o irritarla
e a non vantarmi anzitempo di come mi sarei vendicata.
Vivere con lei era come vivere con la mia bara,
eppure, mio malgrado, dipendevo da lei.
Avevo creduto che la nostra unione potesse funzionare ---
in fondo, vista la vicinanza, era un po' come un matrimonio.
Ma adesso è chiaro che o via lei o via io.
Sarà anche una santa, e io brutta e pelosa,
ma scoprirà ben presto che questo non ha la minima importanza.
Sto raccogliendo le forze; verrà il giorno che potrò fare a meno di lei
e allora deperirà per il vuoto e sentirà la mia mancanza." (Nel gesso, Sylvia Plath, 18marzo1961)
RispondiElimina"Non voglio una semplice cassa, voglio un sarcofago
con strisce di tigre, e una faccia rivolta in su,
tonda come la luna, con gli occhi spalancati.
Voglio poterli guardare quando arriveranno
a frugare tra i minerali muti, le radici.
Già li vedo, pallidi visi siderali.
Adesso non sono niente, non sono nemmeno neonati.
Li immagino senza padre né madre, come i primi dei.
Si chiederanno se fui importante.
Dovrei zuccherare e conservare i miei giorni come frutta!
Il mio specchio si appanna---
pochi altri respiri, e non rifletterà più nulla.
I fiori e i visi sbiancano in un lenzuolo.
Non mi fido dello spirito. Sfugge come vapore
nei sogni, attraverso il pertugio della bocca o degli occhi.
Non riesco a trattenerlo.
Un giorno non tornerà. Gli oggetti sono diversi.
Rimangono, hanno un piccolo lustro tutto loro
riscaldato dal luno uso e strofinio. Quasi fanno le fusa.
Quando le piante dei miei piedi saranno fredde
mi conforterà l'occhio azzurro della mia turchese.
Lasciatemi i miei rami di cucina, lasciate che i vasi di belletto
mi sboccino intorno come fiori notturni, odorosi.
Mi avvolgeranno nelle bende, riporranno il mio cuore
ai miei piedi dentro un pacchettino.
Non mi riconoscerò, quasi. Sarà buio,
e il brillio di queste piccole cose sarà più dolce del viso di Ishtar." (Ultime parole, Sylvia Plath, 21 ottobre 1961)
Nel museo archeologico di Cambridge c'è un sarcofago di pietra del IV secolo d.C. che racchiude gli scheletri di una donna, di un topo e di un toporagno. L'osso della caviglia della donna è leggermente rosicchiato.
"Rigida, allungata sulla schiena,
con un sorriso di granito,
questa vetusta signora esibita in un museo
giace scortata dalla paccottiglia
dei resti di un topo e un toporagno
che s'ingrassarono per un giorno sulla sua caviglia.
Smascherati ora, questi tre danno
nuda testimonianza
del rozzo gioco del divorare ed esser divorati
che fingeremmo di non vedere
se non sentissimo le stelle macinare la nostra scorza,
grano dopo grano, fino all'osso.
Come si aggrappano a noi sempre e ovunque, come
li abbiamo incrostati addosso, questi morti!
Questa signora non è mia parente
e tuttavia lo è: mi succhierebbe
il sangue e il midollo dell'osso
per dimostrarlo. Mentre ora ripenso alla sua testa,
dal vetro col fondo di mercurio
madre, nonna, bisnonna
allungano mani da megera per tirarmi dentro
e un'immagine si profila nell'acqua della peschiera
dove il matto padre affondò
tra zampe d'anatra arancioni che gli agitavano i capelli---
I cari scomparsi da tanto tempo: tutti
fanno ritorno, però, e presto,
presto: con le veglie dei morti, i matrimoni,
le nascite o un picnic di famiglia:
basta un tocco, un gusto, un profumo acre
perché quei banditi tornino al galoppo a casa
e al rifugio, usurpando la poltrona
tra il tic
e il tac dell'orologio, finché noi non andremo,
Gulliver con teschio e ossa incrociate,
formicolanti di fantasmi, a giacere
nella loro morsa, mettendo radici tra un dondolio di culle" (Sylvia Plath, Tutti i cari morti)
RispondiElimina"Nelle sere blu estive andrò per i sentieri,
punto dal grano, l'erba fine calpesterò:
ne sentirò, sognante, il fresco sotto i piedi.
E lascerò che il vento mi bagni il capo nudo.
Non dirò una parola, non penserò a niente:
ma l'amore infinito invaderà il mio spirito
ed io, come uno zingaro, me ne andrò via, lontano
nella Natura, lieto come con una donna".
(Arthur Rimbaud, Sensazione, MArzo 1870)
"Lieto del bene attuale, smunto del mal sofferto,
l'Uomo vuole sondare tutto, e tutto conoscere!
Il Pensiero, cavallo così a lungo frenato,
si slancia dalla fronte: conoscerà i Perché!....
Che esso balzi libero, e l'Uomo avrà la Fede! [...]
La voce del pensiero è più di un sogno, forse? [...]
Non possiamo sapere! - Noi siamo soffocati
da un manto d'ignoranza e di anguste chimere!
Scimmie umane cadute dalle vulve materne,
la pallida ragione ci occulta l'infinito!
Noi vogliamo guardare: il Dubbio ci punisce!
Il dubbio, uccello cupo, ci batte con le ali...
- E l'orizzonte fugge in una fuga eterna!..." (da: "Sole e carne", Arthur Rimbaud, maggio 1870)
L'autentica conoscenza, quella che ha davvero valore per la vita dell'uomo, al di là di ogni illusione razionalistica, è frutto di "un lungo, immenso e ragionato sregolamento di tutti i sensi. Tutte le forme d'amore, di sofferenza, di follia (...)" (da: "Lettera del Veggente" di Arthur Rimbaud a Paul Demeny)
http://www.youtube.com/watch?v=xiIf3n2EYCU
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