SPIRALE CICLICA

Si corre soli. Si corre come cani senza guinzaglio in strade di paesini senza padroni. Eroi per giorni che se ne sono andati come faremo noi con le museruole sciolte, ma senza accorgerci. Ci saremmo portati bottiglie di vino rosso e penne scariche se avessimo saputo. Un cast di attori più che di eroi.

lunedì 26 dicembre 2011

24 dicembre 2011

Sole, gelo, vento a palleggiarsi
il pomeriggio mentre esco.
A bracciate nel centro, 
capelli nel bavero del cappotto
e sguardo sporco.
Il freddo agli occhi mi indica, col dito,
il marcio al frutto
del nostro vascello sepolto d'acqua.
Con te
distanti d'istanti in istanti
ciascuno al suo crocicchio
che di schiena è lo stesso:
pistole e coltelli nello stivale, io;
nella cintura, tu.
Lui mi passeggia accanto come vapore: 
sussurra alle orecchie ghiaccio.
E papà mi accompagnava ogni anno nella casa
di quadro di bimbo.
E papà mi ci portava ogni anno
in quella casa di nonni
e rimpianto.

h.n.

h 2.09 - 25-12-11

mercoledì 21 dicembre 2011

2 - La giostra

(La giostra - Gianmaria Testa)
Apro gli occhi, ho sognato te. Una briciola di intima felicità si poggia sulle mie labbra svegliate adesso. E' come il filo che si potrebbe attaccare al palloncino per portarselo a spasso. Questa mattina sgangherata prova a tagliare con un battito di ciglia l'illusione di esserti stata vicina. Per quanto? chissà.
L'immagine del treno su cui ho voglia di salire schiaccia la noce della mia piccola anima che si stiracchia confusa. Mescola sogni e realtà, zucchero nella mia tazza di latte. 

Da un po' di tempo scrivo i sogni che al risveglio ancora ricordo. Quello di oggi diventa un tassello della sceneggiatura che sto scrivendo, perennemente incompleta. Pare quel film che ho visto due volte: sembro Gil che ottiene il suo romanzo viaggiando di notte nel mondo in cui vorrebbe vivere. E di giorno si muove nella sua vita quotidiana con una fidanzata che non capisce niente di lui e dei suoi sogni assurdi.

Ma quando si diventa stregoni giocando a mischiare realtà e illusioni nel pentolone della propria mente, quando si vorrebbe bere il bicchiere, fino in fondo, succede che accadono cose, coincidenze strane e meravigliose.

Così sei tu ad essere arrivato qui. Era stato un sms casuale quello che me lo aveva fatto sapere, te lo avevo inviato da quell'auto che, mentre mi conduceva ad un concerto blues, insieme all’odore del riscaldamento acceso da poco mi aveva portato forte il tuo pensiero. E volevo sapere come stessi.
Oppure era stata una scelta tua, dirmelo. Comunque che ti trovassi a pochi km lo avevo saputo così.

E trascorso il concerto ed una notte che conservava una adrenalina strana appoggiata al cuscino, eccomi al tavolo della cucina: davanti la mia colazione ed il pensiero degli impegni della giornata. Qualche appunto..
Esther sente tutto della telefonata di Lola a Paco. Non può essere che così visto che Lola è proprio lì a pochi passi. Sta investendolo di parole, gli esplicita chiaro e diretto l'amore che prova per lui e il fascino, la stima, l'attrazione,... Lo sta facendo per via del discorso di prima, tra amiche, quando Esther le provava a spiegare quella voglia di abbracciare Paco. E Lola si era tuffata dentro alle chiacchiere quanto lei, riusciva a vedersi simile, a riconoscersi. Era rimasta conquistata dal desiderio che a volte muove dentro e ti shakera il sangue, avrebbe voluto provarlo anche lei.


Si trovano nella piazzola di un distributore di benzina. Sono in tre: c'è anche il fidanzato di Lola. E accanto a loro, ad accompagnare la vista, una di quelle strade americane, tutte terra. Che fuma, al passaggio delle poche auto, pitturando tutta l'aria di seppia come una foto sbiadita raccattata tra anticaglie polverose.





Stavano facendo il punto: Lola l'auto l'aveva, anche se senza benzina e in quel momento - dannazione - era pure squattrinata come del resto Esther che, per altro, non sapeva nemmeno guidare e come propellente disponeva della sua folle passione a tormentarsi con la purezza della vita che brucia le mani. Ma qui occorreva petrolio. Lui la benzina avrebbe anche potuto pagarla, ma non aveva nessun altro luogo da raggiungere.

Eppure si sarebbe potuti partire soltanto mettendosi insieme. E' così che ti accorgi che non è con un gesto solo che puoi rispondere alle esigenze di tutti.
Poi, d'improvviso, negli occhi di Lola sembrava nata una scintilla a illuminarli di guizzo feroce. E lei appariva confusa, disorientata. Forse si era immedesimata fino a perdersi.
Si era curata di distanziarsi d'un passo soltanto per prendere dalla tasca il suo cellulare. Stava lì a dirgli tutto quel che avrebbe voluto dire lei. Con una precisione cruenta che non avrebbe lasciato spazio alla commiserazione.
Esther non riesce a non esserle amica lo stesso ed è, anzi, avvinta dalla determinazione che dimostra. Per un po' non riesce a non osservarla. Lola ha capito. Che prendere e partire per raggiungerlo significa di fatto riconoscergli un sentimento. E allora tanto vale farlo prendendo innanzitutto il telefono in mano, mentre lei si lascia strattonare dai suoi dubbi farneticanti. E dai problemi pratici. 

Il fumo, la terra, un motore che romba: solo che questa volta è proprio Lola che sta sgasando. Neanche da concedersi il tempo di capire come abbia fatto: la moto è ancora lì; la coppia di innamorati si scambia un rapido bacio prima di rimontare in sella. E' a loro che Lola ha invocato le sue sconnesse richieste d'aiuto guadagnandosi un po' di benzina con un racconto impreziosito di tocchi teatrali e caotiche esternazioni esistenziali. Vestiti di giubbotti neri ne sono forse rimasti estasiati. Inteneriti, l'avevano aiutata, magari ricordandosi l'inizio del loro amore oppure la donna dalla lunga coda di cavallo biondo-scura s'era talmente infastidita da volersi semplicemente togliere di torno in fretta quel disturbo. 
Chissà se Lola si fermerà in sosta a metà strada, rifletterà un minuto con le braccia stanche e la testa sul volante e poi svolterà conducendo l'auto verso una destinazione nuova o forse vorrà correre verso la stazione dove far salire il suo ragazzo intanto intento a comprare un biglietto che lo riporti a casa. 
Esther passeggia di fianco all'autocisterna appena parcheggiatasi, dopodiché prende il telefono cellulare e chiama anche lei Paco e con totale inspiegabile timore, imbarazzo, una sottile insicurezza, gli dice che vorrebbe vederlo. Ed è una cosa (b)banale. Lui è felice di sentirla e proseguono a conversare in bilico su tutta quella placida fragilità onesta. Intanto che discorrono, Esther tira piccoli calci alla terra per vederla alzarsi, farsi vapore come quelle tensioni che svaniscono di soppiatto, da sole.
Non si sa se insieme stiano ragionando nel cercare una soluzione per incontrarsi, se sarà lui a raggiungerla, se lei si inventerà qualcos'altro, se troveranno il modo o se basterà quel momento per sentirsi vicini. 
 
...ho chiuso poi il notes.

E, ‘pazza’, di fronte alla tazza di cappuccino a metà mi sono decisa per davvero a prendere il telefono in mano. Un gesto semplice talvolta diventa scommessa: stupida; propria; che ha del ridicolo; sopracciglio alzato dalla mia vulnerabilità in uno di quei momenti in cui si fa viva, si manifesta, mi ammicca in faccia. Perché io non so com'è per te. Non so com'è nemmeno per me. La voglia di vederti che fa a pugni con il dovertelo chiedere, con l'esigenza di reciprocità; si fa largo, sgomitando tra esitazioni e sensibilità per trovar la sua strada. Un giro di giostra.

La risposta che ricevo può esser letta in più modi, ma la leggo in uno unico: quel che c’è scritto. Quando ti chiamo per trovare una soluzione diversa, riferirti che di stasera ormai non si riesce, sentendoti, ti domando subito “quando e dove” e mi viene da ridere intanto che mi dico che non erano esattamente queste le parole che intendevo pronunciare. E invece sì. Tu sorridi, troviamo una quadra tra due giorni. C’è chi mi farà rendere conto che ci sarebbero state altre possibilità, ma dirò che lì per lì a me non fregava niente di niente: “volevo vederlo e basta. Volevo vivermelo e basta.”.
(La vita va - Baustelle)
Ma la giostra continua: l'aria elettrica che si respira rendendosi conto di starsi levando in alto; il fermento; la sorpresa; l'attesa; assurdi tremila battiti assurdi; squilla-squilla; quiete e domande; il placare agrodolce che riporta i piedi alla strada; il vacillare di tentennamenti che fan capolino a cercare d'insinuar delusione dove c'è appagamento;... poco dopo mi hai telefonato e mi hai chiesto subito se stessi dormendo.
Sfottermi da sola, ma vivermi tutto di questa vita che mi disegni dentro, di questi colori sfumati che smuovi.

In fondo, ero solo felice di vederti.

martedì 20 dicembre 2011

1 - 18.000 giorni

Soffio; soffio ogni volta che sbuffo, che ho aria compressa dentro. Sento la tensione, la plastica tirata di questo palloncino azzurro. Soffio ancora. Devo smetterla di godermi il fascino dei dettagli. Se continuo così, a momenti scoppia. Sta diventando troppo. Posso fermarmi anche qui, può bastare. No. Ogni tanto riprendo brevemente fiato. E' solo un attimo, tempo di osservare come si sfuma la sua tinta. E di lasciar attraversare nella mia mente il pensiero leggero della faccia sorpresa della bambina che sarà più contenta quando lo vedrà volare, saltellare qui e là grande e colorato. Tengo stretta l'estremità con le dita. Un filo d'aria esce comunque. Sento il flebile suono che fa, mentre se ne va e riempie questa stanza. Poi ancora soffio. Esploderà di nuovo, qui in viso. Lembi di plastica rugosa li ritroverò in grembo. Altri dovrò raccoglierli per casa. Sarà una scena triste. Sarà assordante. Oppure mi scapperà dalle dita e soffierà veloce, a mezza altezza, delirante e cattivo. Lo seguirò con gli occhi per quanto potrò. Infine scemerà a terra, stremato. 
Tempo di calmare lo spavento o la delusione e non ci sarà più nulla. Poi ricomincerò da capo. Perché ricominciare è fondamentale. Quelle volte che ci riesco, a trovare il momento giusto, e arrivo fino alla fine e sforzo le dita girandole per fare il nodo, appena lo lascio sorrido e capisco che è un altro momento benfatto che aggiungo al bagaglio. Conservo il palloncino finchè non si sgonfia da sè o lo taglio io se diventando brutto, soffre. Per il tempo che vive porta una costante festa nel quotidiano mio, della bimba. In questa casa uguale a tante altre, moderna e perfetta, quanto è rincuorante vedere colori che rotolano e rimbalzano e riempiono il vuoto e mentre cammini bisogna aver premura di non calpestarli, ed è bello. Perchè sono fragili, come fossero vivi.


Paco dice che è pazza, ma lo fa con un’espressione tenera e affettuosa e compiaciuta che sembra avere il senso di quella di Kerouac: “Perché per me l'unica gente possibile sono i pazzi, quelli che sono pazzi di vita….”.

C’è una lavagna bianca appesa al muro alle spalle della panchina sulla quale si sono appoggiati, lei prova a scrivere “ti amo” per lui, ma non riesce nel tentativo perché cascano pezzi di lavagna in terra e lui è tornato bambino improvvisamente e sbraccia, facendo capricci, cancella pezzi di frase. 
Entrambi sentono provenire dall’altra stanza rumori e voci che litigano, Paco torna adulto e sulla lavagna lei scrive “ti vorrei restare vicina sempre”. Lui fa per baciarla e mentre stanno per fare l’amore lì, arriva suo fratello, il più piccolo, che con tavolette di cioccolato e pane si mette ad apparecchiare la scrivania dello studio, contento. Dice, tutto sorridente: “scusate, ma di là non sapevo dove appoggiarmi, c’è parecchio caos”.

Non dicono niente. Lei accenna un movimento delle labbra, lui uno sguardo turbato. Paco la prende per mano per portarla a casa sua. Si sdraiano sul divano, abbracciati. Esther non ci era mai entrata, prima. Si addormentano lì. Quando lei si alza fa quattro passi guardandosi i piedi sul pavimento, si sveglia anche lui. Lei deve andare: come se bastasse cambiare stanza per cambiare paese apre la porta e rieccola a casa sua tra traslochi costanti e mobili spostati.

Per qualche tempo ritorneranno ai loro soliti rapporti: lei che gli manda cartoline commercialissime con pensierini da adolescente e Paco che ogni tanto di punto in bianco la chiama, senza apparente motivo ed in quelle telefonate lui si sente convincere che deve scrivere, le chiede della sua bimba, sorridono e poi si salutano. Dinamica tipica delle loro conversazioni, brevi e tutto sommato molto simili. Ma pare che ogni tanto si debbano ridire quelle cose. Come un rito da celebrare.
(Gianmaria Testa - 18.000 giorni)

martedì 6 dicembre 2011

Prima v'era primavera

Oggi che non me lo chiede nessuno. Facciamo oggi:
sloggi dai tuoi alloggi e io imparo delle cose.
Oggi imparo quelle cose che tu sai.
Tu le sai; io no. Così io oggi imparo, così poi so.
Oggi imparo quelle cose che sai
e che saprò, con oggi.
Oggi che non è importante, ma forse lo sarà poi
perchè è oggi che appoggi i tuoi appunti,
ti affacci ogni tanto, li sfoggi e poi fuggi,
ma solo per oggi e raggiungi
me in quelle cose che saprò, quelle cose che tu sai.
E non sapremo di uguali ugualmente.

Oggi imparo alcune cose che non mi chiederai di dirti
poichè tu le sai; io le saprò. E perciò
non parleremo nemmeno.
Ti chiederò la mano mostrandoti un polso
una volta imparate quelle cose
che non abbiam bisogno di dirci.
E per mano, mano a mano,
ti porterò dove sarai tu, a quel punto,
ad imparare delle cose,
poche cose che non sai; io sì.
Io non te le dirò: le imparerai.
Tu non me le dirai: non c'è bisogno, già le so.

In una di quelle giornate assolate in cui non lo chiede qualcuno,
in uno di quei pomeriggi affollati in cui non ce lo impone nessuno,
intanto che raduno un po' di rose spinose,
fangose e a digiuno di pose
inizio a dirti le cose
che mi pare opportuno - senza parlare,
quelle che nessuno ci chiede, intanto che
il mio passo precede mentre procede sul marciapiede.
Sono cose festose che raccontan di spose - senza parlare.
Le tue mani nervose sento ritrose allor il piede recede,
non si richiede una sede, ma una pausa concede,
ciascuno si siede.

C'è uno, bruno, che con mosse un po' estrose
si mette, importuno, a raccoglier mimose,
proprio qui.
Ci vede e non cede, poi intravede in noi prede e
un po' in contropiede eccede e presiede,
per ognuno intercede, ti parla di fede,
non ci si crede,
tu mi dici "succede",
lui infine s'avvede del clima che lede,
si ravvede e ricrede, provvede
a dar alle verbose sue prose dannose
delle chiose un po' ansiose, sebbene copiose.

Io confesso, dimesso, il sentirmi disperso
dipeso senz’altro dal dispetto doloso
commesso dal matto.
Deluso, rincaro offeso e dispenso il disgusto, disdegno
all’ottuso che accuso d’esser apparso, un po’ astruso,
senz’essere ammesso, con un ammasso di smorfie
smaniose, per nulla curiose, in vero chiassose,
ambiziose di figurar spiritose, giocose, scherzose,
perfin contagiose, ed invece impietose e costose per me
che stavo per dire le cose preziose e amorose
e silenziose che sai. Che so.
Come fossimo in un cinema.. d’essai. Forse no.

Amaro, astioso, corro al riparo e dichiaro che adesso ignoro
l’abuso occorso, ritorno al contesto ormai perso e visto il decorso,
giocando al contrasto, cambio discorso. T’arrivo dappresso,
derido il somaro accorso un po’ ignaro al nostro consesso,
comparso già avverso, da baro inatteso e cencioso
senza cenno d’applauso, ombra di compenso.
Conciso concludo quel chiasso e confuso e deciso
mi preparo un sospiro e ti sparo commosso, ma chiaro
che vogl’esserti caro come faro al corsaro; raro
come asso già in mano;
avaro buonsenso all’ingrosso, a buon prezzo;
ingresso in un mondo vissuto più a fondo.

Poi arrosso, arranco, convulso, sono al collasso e affosso
e quasi al decesso tu mi dici “concesso”.
Io penso “è complesso” e casso ogni eccesso
da puparo, con un gesto rischiaro l’esser mio compromesso,
che mi dici compreso e io resto
di sasso mentre rinnovi il tuo assenso
col normale entusiasmo. Scolaro, io imparo.
Al consenso cui assisto,
ho appreso ch’è tutto apposto,
ma un poco desisto
poi arreso, mi arresto:
capisco che esisto.

6-12-11
ore 19.24

Oceano d'inizio estate

Poteva essere il 10 di luglio o no, ma mi ero svegliato con ancora il sonno negli occhi: quella era l'aurora della mia nuova estate. Certo il sole non avrebbe tardato ad alzarsi e si sarebbe riproposto nei suoi esercizi calcando la scena agli occhi della gente. Non posso dire d'aver scelto aria più sobria ancora intento nella stanza sul letto in bianco e nero nei 45 addominali che mi avrebbero confermato d'essere già o ancora presente a me stesso.
Rialzare il bicchiere di vodka rovesciato sul tavolo nella polvere dell'altro giorno ed una mano tra i pelucchi della barba, non più d'un minuto, per non darmi tempo di controllare più su, nello specchio davanti, le mie labbra che si aprivano in un sorriso sfuggito.
Poi a passi incerti e sguardo lungo tra le le barche cercando la mia per scoprire se sorriderle e partire nell'aria umida o trascinarmi ancora qualche metro stretto fino ad attraccare uno sbadiglio e meno silenzio all'insegna GLASS che immaginavo ancora accesa da ieri. Eppoi avevo fame, anche.
Salsedine e solitudine riempivano ogni anfratto dell'oceano, buio, quasi fosse rimasto estivo o imbronciato ed era tutto lì.
Quasi le 5 di quella specie di notte blues con lo sciabordio di ogni onda che continuava a lambire ineffabile il pontile come il tappeto di accordi di Bloomfield a tenere il tempo nella testa e togliermelo un attimo dopo aver solleticato le mie identità passate, le lacrime dimenticate, i sorrisi compiaciuti, ma risultati risibili a quel cielo che non so riassumere tanto l'ho lasciato immenso.
Sembrava di assistere ad un concerto; un modo come un altro per dire che quel tipo di cartolina è pur sempre uno spettacolo dentro agli occhi di un amante perduto con il remo che gira in mano come fosse un cucchiaino in una tazza all'ora del the.


(24-11-2007 ore 20.47)

venerdì 2 dicembre 2011

Prima


Forse non nelle mie istantanee di memoria 
a riproduzione casuale; 
mi han però detto, invece, che 
mentre parlava con me 
capelli sul capo doveva poi averne, in effetti: 
brizzolati. 
Sulla lingua, comunque, nessuno. 
Gli concedevo scarsa attenzione, 
con sguardo rivolto altrove. 
Mi ha fermata 
sull'uscio tra la terrazza e la saletta del pub 
sfiorandomi appena, 
toccandomi un poco 
di parole parlava. 
Il 29 di luglio si stava consumando tutto 
come la candela al mio tavolino 
di pochi passi in là 
dove mia figlia col padre non si vedevan raggiunti. 
Tornavo dalla mia telefonata 
e forse avrei potuto scorgerli 
sporgendo la testa di poco 
tra quelle di chi c'era in quella sera. 
Abbracciata alla sedia la mia borsa 
e sopra il piano la cartellina coi fogli 
- la poesia me la porto sempre dietro - 
e lo sguardo lanciato 
come per pescare i miei oggetti in attesa. 
No, no, d'accordo: 
"i vostri figli non sono figli vostri, sono figli e figlie del desiderio ardente che ha la vita per se stessa"; 
frecce, archi, secchiate di vernice. 
L'uomo alto era come un regalo. 
Io mi sfregavo le mani 
e vestivo occhi di diavolo 
poichè sapevo 
ch'egli era diventato un po' mio 
e non per l'adulazione a buon rendere, 
ma perchè sarebbe diventato di carta 
egli stesso 
e intanto 
ancora ridevo sottecchi 
per quel cartello astratto 
che avevo letto: 
"lasciate l'ego fuori dalla porta". 


Due giorni soltanto e un diverso tavolino: 
soffiava il fumo, 
senza sembrare punto arrabbiata. 
La bionda soltanto aspirava 
dalla sua lunga lunga sigaretta. 
Un'altra, vestita di rosso, si sentiva ballerina 
al suon di fisarmonica. 
Io bevevo analcolico. 
M'ero infilata in una di quelle volte 
in cui l'inchiostro allaga le pagine, 
allarga le dita arrese 
accompagnate dal balletto dell'ombra 
di fiamma della candela a svanire. 
Seguivo i contorni delle mie mani 
nere 
gesticolanti sul foglio 
a spiegarsi 
e decifravo quei gesti 
e mi faceva bene. 


24-11-11 
ore 15.01

Rockisland

E se fosse vero 
su quel muretto ci troveremmo noi 
nella prossima di queste notti 
a studiare il mare banalmente sempre lì, tu 
mentre io lo lascerei guardarmi le spalle 
intenta a racchiuderti tra le gambe. 
Seduta; ancora in piedi tu 
che hai così bisogno d'amore 
e di me. 
Spalle al muro, al mare. 

Solo un giorno fa suonavi il clarino 
nella piazza 
e le donne restavano ammaliate. 
Io ti spiavo nelle pause, 
nei tuoi sguardi agli altri musicisti, 
nel tuo ridere, 
in quel modo di restare seduto a gambe larghe. 
Non è che non volessi essere uno dei tuoi topi; 
è che sono gatto pure senza i tuoi ricordi 
che simulano gomitoli tra le mie zampe. 

Certo, che ti vorrei con me a farcire queste ore. 
Un "dai, rimani" adesso sarebbe inUtile. 
Ti dico, 
questi falsi prepotenti indizi di un'estate in arrivo 
mi disturbano. Non m'allietano i giorni 
con il sorriso pacioso di questi primi soli caldi 
nè illuminano lo squarcio tra pomeriggio e sera 
negli anni scorsi subito imbastito a festa 
con una poltroncina di legno sul terrazzo di casa. 
La mia casa di turno. 

No, quest'oggi la mia testa è rimasta in autunno 
e s'è addolcita di neve solo per quella che ingombra i bicchieri di sera 
perchè neanche il gelo ho digerito del tutto. 
Forse metterò lo stesso la sedia di legno in balcone 
scegliendo in un attimo da che lato di casa iniziare 
ad affacciarmi al dì fuori, al cielo assolato, scegliendo 
quali nostalgie mettere dentro a ogni uccello 
e restare ad ascoltar sbattere le ali nella bufera di dentro. 
Tra le penne le penne con cui loro fanno le righe: 
non sono gli aerei a disegnarle, te lo spiego io. 

Guarda, è come se il cielo mentre si tramuta 
di azzurro in azzurro sgonfiasse le nuvole: 
sono cuscini vuoti, vecchie, 
a una a una scoppiate con spillo 
tirando scarpe al vento. 
Spariscono tutte, le nubi, 
inconsistenti come preoccupazioni vaghe, vane, vuote, idiote. 
Qui il cielo s'è già tramutato in valigia 
per occhi insonni che vedono poco, 
occhi pianti via in cambio di ingenua fantasia. 

Così tu sei al molo, sul muro, 
e bada, io ci sono, 
parlami, 
intanto che controllo lo stato dei cuscini 
della mia poltrona di legno 
e decido 
se non sia definitivamente il caso 
d'inserire nel calendario di spesa 
una nuova Base 
per partire nei miei sogni estivi. 

2-12-11 ore 16.11

venerdì 18 novembre 2011

Giocolieri


E mi pulisci gli occhi.
Mi spazzi via tutte le foglie secche e il fango, 
ritorno bella. Ritorno io.
E' perchè sei tornato tu.
Compari quando mi serve davvero, 
senza che te ne abbia informato.
Ho capito da quelle telefonate di tutti i pomeriggi
che dal momento in cui ho trovato la lanterna
avrei avuto bisogno di te.
E' sera e prima di stenderci 
ti tolgo la maschera 
per farla riposare in pace.
E' fragile come noi: 
unica, per questo.
E mi metto a scolpire il tuo personaggio
nel mio libro. 
In modo che sparisca,
anche se forse ti spaventa;
sembra di cancellarti
parola a parola
e lasciare solo colori.
Bianchi, neri, blu,.. che dicono, zitti.
Tutte le mie partenze col rospo in gola
che duravano sempre tre giorni:
ho ripreso quel treno mille volte.
Lo sai, non ho mai potuto dimenticarti 
nè accantonarti, metterti da parte.
E quella sinistra malinconia sempre appesa
come accappatoio alle palpebre.
Ho capito quello che mi raccontavi tu,
mi è sembrata un'assurda catena
al polso, al braccio, alla caviglia, lucchetto al cuore
e ci ho provato a disintossicarmi,
ad andarmene dal labirinto senza fili,
senza uscita per la bicicletta
e mi sono seduta sul prato e 
ho preso a chiamarla spirale ciclica,
ci ho bevuto su qualcosa.
Ma è così;
Nessuno può cambiare le cose.
La tua inquietudine la conosco
e comunque, sappi, 
ha un buon profumo.
Ed io ci sono

e m'importa tutto di quel tuo stare a guardare il mondo sul tetto come un matto,
come un gatto;
e di questo essere barchette di cartoncino sulla stessa onda
che mi fa impazzire.
E' agre, aspro, dolce, poi rassicurante
dondolare
e sorpresa di bimbo al primo sguardo al mattino
che ricorda un regalo:
arricchisce
e prima di noi, l'aria.
Ci ha addobbati di gioielli veri.
Ci ha vestiti di giubbotti stretti.
Ci ha scaldati di santi e dannati vivi.
Non è da tutti, nè per tutti.
Dobbiamo prenderla com'è
questa perla dentro la conchiglia;
questo rumore di mare segreto all'orecchio
da non far svanire, nodo che non scioglie.
Dobbiamo dircelo. Crederci sempre.
E questo, intendimi bene, non è un brano: è un abbraccio.
Eri ogni volta l'unico in quell'attimo
a potermi restituire una bussola di legno senza lancette
ed un senso;
il sorriso ed un sollievo allo sgomento.
Sei arrivato senza che ti chiamassi.
Non ti ho detto nulla e hai capito tutto.
Mi hai stretta, evanescente.
Per un altro giorno ho saputo che non ero sola.
Sei l'unico a leggermi l'anima come fosse spartito.
Pesa. Pesa come un bagaglio in valigia.
Pesa la carta di quel libro eterno.
Pesa il 'per sempre' nelle nostre canzoni.
Pesante è il timore c'ho avuto di esser troppo
pesante
è timore di quel che vuol dire
esserci sempre,
valere.
Ma questo contare
è quello del finestrino da cui davamo di matto;
quello dell'affetto, mare profondo, che ancor'oggi ti voglio
dove ancor ora ti vivo,
uguale e accresciuto
d'amore ogni giorno
e ti vedo attento
e ti scorgo assorto
e mi dico che in fondo
volerti bene non può farti male.
E' ingenuo pensare.
Ma quando vieni da me e mi dici 'sto giù'
senza chiuderti solitario in stanza
e io già so
che, impotente e distante, voglio solo riportarti
sorriso e sospiro
e conforto al tuo volto
impensierito, attonito, stufo, stanco,
mi sbraccio e penso ed accorro,
precipito a dirti 
che è bello
che tu sia venuto da me
che voglio il tuo peggio,
che non so darti altro
che un abbraccio di sarto
vestito ritagliato,
di cartacrespa costruito
con pieghe delle mie mani
e linee spezzate e lunghe,
contorni che definisco coi toni
di una maschera da bambini alle prove
d'una scenetta da copione di poche parole.
E' così che ti faccio scivolare
dalle dita quell'urgenza,
le forbici e la carta
e ti arrivo vicino in distanza.
E probabilmente è vero.
Arrivi con quattro parole
e dai riposo e umidi sguardi brilli, un disarmarci
che sembra di sapersi addosso
giocandosi due poker d'assi.




A Mauro De Felice.
A volte penso che tu sia l'unica persona che mi ha recepita per come sono; 
a volte penso anche che tu sia l'unica persona con cui vivo 
essendo libera di essere me stessa

2.43 - 18/11/2011

mercoledì 16 novembre 2011

La cosa

Che caldo. Mai sentito un caldo così soffocante. Non si respira.

E' finita. Questa volta è proprio finita. Lei ha deciso di andarsene. Non la rivedrò più.
Benissimo.
Era così innamorata! Io, devo dire, negli ultimi tempi non ne avevo neanche un gran bisogno. Non gliel'ho mai detto per non farla soffrire. Mi ha lasciato lei. Bel colpo.
Che caldo. Certo che anche lei lasciarmi con questo caldo! In genere preferisco mi lascino in inverno. Lei niente, se ne va così in una stagione qualsiasi. Torna dalla mamma, dalla zia, dalla sorella, dalla cognata. Ma possibile che non mi pensi. Ecco, forse ora mi chiama. Certo, la telepatia. Lo sa che per me sarebbe importante. Sono lì che lo aspetto, lo guardo, lo fisso il telefono. Niente. Sono qui da due ore e lui: zitto. Maledizione. Hanno imparato anche gli oggetti. Quando li vuoi... niente. Appena sei al cesso... driin. Sì, ma non posso mica passare la giornata al cesso.
Ma lei non lo sentirà il caldo? E allora perchè non fa niente. Lo sa cosa vorrebbe dire per me in questo momento vedermela correre qui tutta rossa, accaldata, amore-amore, certo, la resurrezione, il miracolo. E' così che si diventa cattolici. 
Ti amo più di prima, è colpa mia, è colpa mia.
Ma lascia stare, dai. E' una storia finita e basta. Bisogna che me lo metta in testa una volta per tutte. Non si torna indietro. Non è mica il gioco dell'oca. No, magari uno pensa: la riconquisto! Nooo, non si rimonta mai. Vai lì, fai un sacco di discorsi, preparati, belli anche, di quelli che fanno colpo. Ma quale colpo? Una volta facevano colpo! Ma cosa parlo a fare con questa faccia da cretino, perdente. Un pugno ci vorrebbe. Pum. Invece di star lì a inciampare sulle parole, un fiume di parole, che poi quella va a casa e dice: ma che ha detto?! Niente. Pum, invece. Quello sì che se lo porta a casa. 
Eh, ma che caldo. 
Colpa mia. Sempre stata colpa mia. Non l'ho saputa tenere. Ce la faccio mica io a fare una cosa seria. Riesco sempre a sciupare tutto. 
All'inizio per le donne sono un genio: mi attaccano tutte le medaglie sul petto. Sono una meraviglia di uomo, l'unico. Ma perchè duro così poco come meraviglia? Dopo un po' mi strappano le medaglie e m'insultano: sei un egoista fottuto che non sai voler bene a nessuno, nè a me, nè a tua madre, nè ai tuoi figli. Tu non sai neanche cos'è l'amore. Tu sei capace solo di scopare. Magari! 
Non era mica un complimento. Significava: completamente incapace di amare. 
Io, eh?

È che l'amore è una parola strana. Vola troppo. Andrebbe sostituita.
A volte mi sembra che tutte le civiltà consistano nel dare a qualcosa un nome che non è il suo. E poi sognare sul risultato.
“L'amore”... Non sarebbe meglio chiamarlo... “La cosa”? Potrebbe diventare più concreto.
All'inizio io, lei, l'amavo. Certo, all'inizio ho sempre amato. Sì, voglio dire che ho avuto quegli attimi intensissimi, che al momento sembra che ti lascino dei segni profondi, importanti.
Ma “La cosa” non è questo. O meglio, non è solo questo. “La cosa” è trasformazione, percorso, crescita insieme...sì, per diventare un insieme solido, indistruttibile. Una radice profonda... dove l'altra persona è come un prolungamento del tuo corpo. 
“La cosa”... è l'amore. No, un'altra qualità dell'amore. Una qualità che non rimpiange gli attimi perché diventa la vita. “La cosa” non si fa solo con la volontà. È un patto di sangue stipulato tra due persone e forse, prima ancora, dal destino. Non so se avrò mai la fortuna di farlo, questo patto. Forse ci vorrebbe un uomo.
Cento volte ho provato a cambiare. A ricominciare da capo. A reincarnarmi. Ma mi sono sempre reincarnato...senza di me. 
Eppure io guardo, io avverto, io tocco... Ma è come se sentissi di non essere niente.
Ecco, senza avere avuto una realtà, io passo evanescente tra i sogni di alcune donne che non hanno avuto la possibilità di completarmi.
Ci sarà senz'altro il modo di fare... “La cosa”!
Altrimenti il nostro destino è quello di essere delle scorze di uomini... degli involucri... mai delle persone.
Magari dei personaggi... simpatici anche, affascinanti... mai persone. Ma se è così... l'amore non sarà mai... “materia”, “terra”, “cosa”... sarà sempre una parola che vola... una farfalla che ti si posa un attimo sulla testa... e ti rende tanto più ridicolo quanto maggiore è la sua bellezza.

Giorgio Gaber.