SPIRALE CICLICA

Si corre soli. Si corre come cani senza guinzaglio in strade di paesini senza padroni. Eroi per giorni che se ne sono andati come faremo noi con le museruole sciolte, ma senza accorgerci. Ci saremmo portati bottiglie di vino rosso e penne scariche se avessimo saputo. Un cast di attori più che di eroi.

martedì 20 dicembre 2011

1 - 18.000 giorni

Soffio; soffio ogni volta che sbuffo, che ho aria compressa dentro. Sento la tensione, la plastica tirata di questo palloncino azzurro. Soffio ancora. Devo smetterla di godermi il fascino dei dettagli. Se continuo così, a momenti scoppia. Sta diventando troppo. Posso fermarmi anche qui, può bastare. No. Ogni tanto riprendo brevemente fiato. E' solo un attimo, tempo di osservare come si sfuma la sua tinta. E di lasciar attraversare nella mia mente il pensiero leggero della faccia sorpresa della bambina che sarà più contenta quando lo vedrà volare, saltellare qui e là grande e colorato. Tengo stretta l'estremità con le dita. Un filo d'aria esce comunque. Sento il flebile suono che fa, mentre se ne va e riempie questa stanza. Poi ancora soffio. Esploderà di nuovo, qui in viso. Lembi di plastica rugosa li ritroverò in grembo. Altri dovrò raccoglierli per casa. Sarà una scena triste. Sarà assordante. Oppure mi scapperà dalle dita e soffierà veloce, a mezza altezza, delirante e cattivo. Lo seguirò con gli occhi per quanto potrò. Infine scemerà a terra, stremato. 
Tempo di calmare lo spavento o la delusione e non ci sarà più nulla. Poi ricomincerò da capo. Perché ricominciare è fondamentale. Quelle volte che ci riesco, a trovare il momento giusto, e arrivo fino alla fine e sforzo le dita girandole per fare il nodo, appena lo lascio sorrido e capisco che è un altro momento benfatto che aggiungo al bagaglio. Conservo il palloncino finchè non si sgonfia da sè o lo taglio io se diventando brutto, soffre. Per il tempo che vive porta una costante festa nel quotidiano mio, della bimba. In questa casa uguale a tante altre, moderna e perfetta, quanto è rincuorante vedere colori che rotolano e rimbalzano e riempiono il vuoto e mentre cammini bisogna aver premura di non calpestarli, ed è bello. Perchè sono fragili, come fossero vivi.


Paco dice che è pazza, ma lo fa con un’espressione tenera e affettuosa e compiaciuta che sembra avere il senso di quella di Kerouac: “Perché per me l'unica gente possibile sono i pazzi, quelli che sono pazzi di vita….”.

C’è una lavagna bianca appesa al muro alle spalle della panchina sulla quale si sono appoggiati, lei prova a scrivere “ti amo” per lui, ma non riesce nel tentativo perché cascano pezzi di lavagna in terra e lui è tornato bambino improvvisamente e sbraccia, facendo capricci, cancella pezzi di frase. 
Entrambi sentono provenire dall’altra stanza rumori e voci che litigano, Paco torna adulto e sulla lavagna lei scrive “ti vorrei restare vicina sempre”. Lui fa per baciarla e mentre stanno per fare l’amore lì, arriva suo fratello, il più piccolo, che con tavolette di cioccolato e pane si mette ad apparecchiare la scrivania dello studio, contento. Dice, tutto sorridente: “scusate, ma di là non sapevo dove appoggiarmi, c’è parecchio caos”.

Non dicono niente. Lei accenna un movimento delle labbra, lui uno sguardo turbato. Paco la prende per mano per portarla a casa sua. Si sdraiano sul divano, abbracciati. Esther non ci era mai entrata, prima. Si addormentano lì. Quando lei si alza fa quattro passi guardandosi i piedi sul pavimento, si sveglia anche lui. Lei deve andare: come se bastasse cambiare stanza per cambiare paese apre la porta e rieccola a casa sua tra traslochi costanti e mobili spostati.

Per qualche tempo ritorneranno ai loro soliti rapporti: lei che gli manda cartoline commercialissime con pensierini da adolescente e Paco che ogni tanto di punto in bianco la chiama, senza apparente motivo ed in quelle telefonate lui si sente convincere che deve scrivere, le chiede della sua bimba, sorridono e poi si salutano. Dinamica tipica delle loro conversazioni, brevi e tutto sommato molto simili. Ma pare che ogni tanto si debbano ridire quelle cose. Come un rito da celebrare.
(Gianmaria Testa - 18.000 giorni)

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