SPIRALE CICLICA

Si corre soli. Si corre come cani senza guinzaglio in strade di paesini senza padroni. Eroi per giorni che se ne sono andati come faremo noi con le museruole sciolte, ma senza accorgerci. Ci saremmo portati bottiglie di vino rosso e penne scariche se avessimo saputo. Un cast di attori più che di eroi.

mercoledì 18 aprile 2012

Parole (Spirale ciclica)

Potrei mangiarvi io?
Amo la mutezza suicida che ritira la mia sensibilità in casa, camminando scalza come rimango, sola come senza invitati. Nichilista! diresti. Semplicemente zitta, che guardo. Supero il guado. Frappongo al dolore l'amore del sapermi altro dalle tue categorie, fuori, dalle tue tabelline di marcia perché Pitagora, amore mio, non ha che sommato elementi lasciando ad altri la chimica degli stessi. 
- Ciao Esther
E ti sembro come gli altri, ma ho radici diverse e nasco e rinasco, fenice e roccaforte, schiudo le ali e nicchio e picchio e picchia, di picchiata in picchiata. Caduta, in quel nido a contenere sempre le mie ali spennate e le penne da scriverci la storia per quegli istanti in cui non credi e che sono già tuoi, un regalo. 
Io, donna, ti dico: domani darò cassetto alle tue ombre evaporate o ti terrò a scivolarmi sull'anima ghiacciata senza ricordare il tuo nome. Senza più volerne sapere, senza desiderio. 
- Scusa questa roba è tua? - No.
Con smorfia di riccio dischiudo un momento obbligato, non cortese nè per dispetto a dispetto della valigia nera un po' sgualcita di lui, cappello conosciuto. 
(Nella valigia) Sylvia, non ci sei, ma gli ricopierò una poesia, sarà come quando ne ha ricevute altre. Inaspettata. Chissà poi quella nera valigia seduta, a chi tiene. Che vuole. Se ascolta. Se viene ancora una volta al salute d'un mio sguardo stropicciato, simile. Io non c'entravo. In quella valigia, con la tua scaletta, persa. Mi sono persa nel bicchiere, nel leggere, nelle briciole di neve cascate apposta per questa notte dal mio cielo giocoso. Striglia. Ti accenna fiducia, la sciarpa fa il resto col collo. Qualche ciocca sfugge al berretto ed io ringrazio il fatto, il fato, il violinista che abbracciando lo strumento mi ha dimenticata in virtù del normale suo necessitare. Tom esce dalla valigia e cambia a lui cappello. Una lampada alle spalle e mi vivo questo caldo senza scarpe, te che ti ho lasciato presto, ti ho lasciato solo qui. Ti ho lasciato solo, qui, solo due settimane fa con un sorriso ed altre parole, appuntite, a puntate. Ho scambiato la matita per una penna rossa con cui correggere l'apro di cocktail che non bevo più, per scelta. Nevrosi, diresti tu. Penna rossa con cui prendere il volo e l'infilo nei capelli, fermaglio ai pensieri che svaporano e si scaldano. Spazzo il foglio, spazio. E sia. Sia Tom a decretare la fine di questo blocco di carta senza disegni. Un film di cui decidere la regia. Sputa storie al microfono ed io dico ch'è uomo di note che chiede, capriccioso, che segue rincorrendo. 
Manchi di buio nei silenzi che si addormentano dentro a sogni abbozzati su pagine a quadretti. Manchi di pioggia e non soffri abbastanza. Manchi nella luce dei riflessi che fa questo vino, bianco, che si dovrebbe colorare di giochi di specchi con le tue lenti. Lo specchio, mai la finestra distoglie impaziente i tuoi occhi. Prendo nome e parto, giorno nuovo e sempre onesto, più di quanto vorresti. 
Curami come rosa piccola di principe a torcer spine e scambiarmi in bamcone per girasole e passito. Mi hai comunque abbandonata, per ottenere acini maturi e dolci e sgranarmi gli occhi chiusi, appassiti. 

 L'oceano nella foto è lì, negli occhi e nel bavero della tua giacca. Porterò una mezza tuba e torneremo a dirci come si fa ad entrare nella cappella sistina ad occhi bassi ridendo intimiditi dall'eco e da quell'a(r)marci diverso, quell'a(r)marci di cose, oggetti, sguardi fuggitivi, mentre proviamo a camminare avanti, a stare a galla, senza catene per attraccare.


Bandite i poeti! Con le loro valigie sgualcite da scopritori di terre e sapori. Che emigrino davvero dentro alle loro didascalie furibonde! Si salvino. Che cosa c'è in questa bizzarra forma di frutto liberata dal violinista che, intento a scegliere se portare la rosa che ha davanti o portarla con sé, tende a ripiegarsi e mai spiegarsi al poeta suo distratto, attratto dal coltello. 
Spietata mi chiudo nella mia stanza di specchi. In ognuno ho dipinto un mio ritratto, ricalcando. Sono vestiti diversi a guardarsi, e occhi dappertutto. E tu ti trovi a fare shopping tra le vetrine. Per piacere, dimmi qualcosa, dimmi che sono svitata. [Al di là della vetrina - Paolo Fiorucci]

Ci ho sposati senza contr'atto. Immagino quel pomeriggio sull'oceano. Ci sembrerà quasi sera, quasi tardi, perché avremo aspettato tanto che l'alba si svegli e sarà freddo e farà paura come una mano nella tua e l'anello al piatto. Ho stanato il ragno da buco e tela troppe volte, si nascondeva quando m'avvicinavo ad inquadrarlo. Non ascoltavo domande convulse, ottuse, sincere, convinte, attonite, patetiche, ridicole di brutta farfalla sulla testa che frulla con colori accesi che somigliano a idee. 
Troverai nel quotidiano le notizie della nostra curiosa cesta intrecciata a far rimbalzare nastri l'un sull'altro e poi respiri e occhiate che scappano. Alla finestra passanti, come il quando, il dove, il tu, il lei, il sé e l'emozione su cui camminano senza voler calpestare le righe che il lastricato disegna loro e che qualcuno scambia per confini cogliendone l'alibi per restare in gabbia dentro la propria mattonella.

Piansi la tua partenza verso di là dove non occorre farsi vedere e le suore dicevano a mio padre di non permettermi solitudini. Avrei avuto un ghigno e non lacrime asciutte senza quelle immagini di te sul palco con una me bambina. S'impegnavano a soffrire e mi voltai. E mi voltai a guardare i loro veli e dissi senza una parola che non era la stessa cosa. Mi chiesero di facce attonite e munte di codardia il perché. Rimisi nello zaino arancio le mie scartoffie e oggetti di valore senza prezzo, senza acquirenti e nient'altro dissi. 
Neanche un caffè, lo rifiutò anche mamma. Nonno a scusarsi tra il telefono e un libro di ricette. Un padre poverissimo per potersi permettere di esserlo. Allor sveglia, ho toccato il male. E anziché metter chiasso su lo spaventoso silenzio, piangevo.

Rifiuto di tradirmi come dici. Rimarrò inevitabile senza curarmi delle tue medicine. Sarò a bordo ancora della mia barchetta nella spiegata all'aria carta scritta. Ammainerò le parole facendole salire al cielo e tenendole con un filo d'inchiostro, appese. Lancerò questi palloncini azzurri dal balcone lasciandomi andare, lasciandomi alle spalle lo specchio solo tutte le volte in cui mi chiami per nome e mi dici quelle cose d'amore, stantie dentro al vino, evaporate come serpenti ballerini al suono del violino. Sarò dentro all'acqua di questo fiume che vidi scorrere. Sarai nella mia rubrica come gli altri cui prima di te non ho telefonato. Come lucida macchina appannata, dannata, traggo previsioni dalla mia mezza tuba senza mali, senza guai, senza magie e magi mogi di astrazioni.

Uomini come dei, come uomini. Non mi guardate con simpatia. Tu ti alzi dal mio pubblico mentre ti guardo. 
Vieni sul palco, vieni. Tra l'orchestra dove danza il coro mentre spiega. Avremo cura di restare intrecciati senz'essere prigionieri, vestiti di bianco senz'essere sposi, nel brindisi ci diremo di sì. Lo chardonnay ci pizzicherà la lingua impertinente prima di un bacio il cui vino non saprà più di niente. Non saprai più dir niente.

Narciso è il nome del fiore solo e rosso sul prato di quest'inverno farlocco che resta lì troppo lento. Lo vedi questo eroe suicida e il lamento del mondo che lo perde e non regge più nessuno. Questo camminare sui propri piedi e vivere tutto, cosa porta? Lo scirocco, da Zante. Nel Golfo del Leone lo farcivano di umidità e però sa essere dolce. Pioggia di polvere fa tempesta nelle case dove vi riparate, ma può esser pure cotone di cuscino e piuma, se sei lesto, se ti desto. Non c'è più previsione. E la strada scivola come oliata. Lui zoppica fino a conquistarla, Zante, e fa recinto delle sirene che lo incantano. L'altro, alto, disarmato, orgoglioso, rimane offeso al porto. E parto. Le sirene sedendo nel bel prato col fiore in bocca a stuzzicar le labbra.

Questi francesi non s'accorgono e delle pale dei mulini han fatto pecore e vendetta. Non dire mai che dormi quando l'otre dei venti è aperta. Circe t'ha dato sangue per i sogni. Niente ombra. Che sia una piccola Venezia, questa Zacinto mia. Si pigliano le chiese. I terremoti e il vescovo a consegnarsi ai nazisti. Se muovi la bocca puoi dirmi le cose con colori diversi.

Calipso. E' meglio poi un solo giorno da ricordare che dimenticarsi che ci s'annoia?
Fammi spazio nelle trenta stanze del tuo castello.

Guardo il parcheggio dei pullman, guardo il ritrovo dei taxi, comincio a incrociare arte e bellezza senza cercarne, senza musei, come fossero piazze piazzate lì da poco. L'odore di riscaldamento, ancora nel naso. Salgo l'ultima rampa e dalla finestra vedo arrivare e andar via i miei invitati come passanti cui sorrido se incrocio lo sguardo. Mi asciugo le scarpe prima di rientrare in casa dalle mie passeggiate sotto il temporale. Volevo abbracciarti mentre andavo da lui e pensavo ai miei ritmi diversi. Non ho mai creduto a quei compromessi che sono mancanza di coraggio di vivere la propria natura senza farle sconti. Calipso canta nel vento.

Tento di comporre il puzzle della mia identità con schegge di vetro. Delicata e devastante.

Ti fai notare e hai un odore intenso. Attrai insetti che poi restano senza ricompense.

Faccio la tragedia: dico che non mi può capire nessuno perché amo circondarmi di curiosi.

Hai lo stesso sguardo di quando eri piccolo. Per questo speravo lasciassi il ricordo, riuscissi a liberarti. Non te l'ho mai detto perché non era carino e potevo essere fraintesa. Ci sono braccia al collo che non fanno bene.

Affidare ad un uomo la giostra e il dolore? sono molto più maleducata col presente. 
Bene. Non ho presente, ma è un po' come se. Il vento scioglie la neve, porta umido e sale, profumo dell'aria e sabbia e ti getto addosso la farina della neve. Freddo e caldo. Mi pesi. Ti penso. Da un violino tutto questo non me lo aspetto. Lascia il vento alle sue corse, la neve al suo addolcirsi e dedicati a qualcosa di più tuo. Tipo me. Più chiaro. Troppo chiaro. Come la neve di questi ultimi anni, sporca. Di bianco contrasto, di neve secca, di luce, di me domani. Scrivo a due mani senza le tue e senza confidenza: si sono sfiorate lo stesso. Non la dignità d'uno sguardo profondo, non la consapevolezza, evapora. Però non distrarti. Cercavo la scaletta. Tu suona. La neve ci deve aver freddato.

Distesa

Vorrei che tu, amore, facessi come la neve di questi giorni: si poggia su tutto senza stare a discernere tra tetto e tetto, strada e strada,... dove sì e dove può esser rischioso... scende, scende e col sole se ne sta sdraiata sui tetti ancora un po' a sentirsi squagliare neanche fosse in spiaggia a flirtare e poi giù di nuovo a rincorrere e rimbeccare, rilanciarsi. E per le strade è ammucchiata a costruire opere d'arte neanche troppo moderna, molto migliori di quelle seminate da contadini immodesti in città. Ti fa compagnia, silenziosa, quando resta fuori di casa. Ti inzuppa e si trasforma e ti si appende alle gambe per entrare insieme alla spesa. Gioca con te divertita quando le corri incontro e se nel viale alzi gli occhi te li fa piccoli di sorrisi che non trattieni. Quando rientri ti accorgi che t'ha regalato un vestito di ghiaccio e ti vien voglia di riscaldarti, magari godere di un bicchiere di rosso. Tanta neve così non si vedeva da un po' nemmeno qui. Lei, ascolta e non è vero che si fa i fatti suoi. T'invita i piedi a disegnare le sue nuvole, neanche stesse chiamando a succhiare le dita spiluccanti una torta. E' così che vorrei tu facessi, amore, lasciandomi addosso tutta l'eccitazione di un gioco, facendomi credere alla bellezza della natura e sentire quando ci sei come acqua, essenziale alla vita, anche lì dove basterebbe cambiare temperatura di poco per farti svestire l'abito di fantasma e vederti prendere tutto come fa uno sguardo curioso. Affascinante e protettiva, pericolosa dalla faccia furba, infingarda e pura che nasconde e impedisce, ostacola e costringe attenzione eppur lieve come fosse cotone.

h.n.
2011-2012 

lunedì 16 aprile 2012

Ottavina reale

Il freddo è una sciarpa di angoscia immobile alla gola. Da noi la confusione è di casa, le parole escono due a due, a braccetto, arrancando tra i silenzi che gridano di solitudini imbizzarrite come puledri dentro supermarket chiassosi. 
Tragicamente aggrappandomi, mani e piedi, corpo, stretti a cavalcare questo muro di noia, m'appoggio agli scalini grondanti fantasia ancora fresca e alle mie gesta e la pioggia scivola mentre ritrovo, serena, la quiete del mio respirare. Ed è proprio la mia mente. E rivedo le mie vene. In questo poco di giorno che è già tanto, sento l'incenso dei fiori secchi che mi sono giunti nella cassetta. Spediti, in tempo. Ti riconosco dalla calligrafia peggiore, quella che mi compare in gocce blu al marciapiede, accanto alla mia negli occhi che ricordano sovente le cartoline dai nostri primi anni. Ti saluto senza guardarti, forestiero che tieni casa vicina a me. Oggi ho trovato una fotografia in cui non mi piaci: era tra barchette di carta a nuotar nei coriandoli, tra le malinconie immobili, tra pupi di cartapesta e romanzi romantici; in uno scatolo pieno di insidie, in un cartone sommerso di lettere all'aria di quelli cari a chi la strada la vive sul serio, della stazione conosce fin gli angoli e al freddo si va a coprire sapendo bene come così, una notte o l'altra, finirà a crepare. Ma tu fai bene a stringerti al collo quel tuo cappio di lana lieve prima di uscirtene di soppiatto a far due chiacchiere con la neve. Sta ferma agli angoli della bocca, accumulata di orme diverse, ai lati della strada che imbocca labbra d'ombre estroverse in sorriso breve. E' in questo zingaro girovagare con la poesia che freme sugli occhi, le labbra umide dell'ultimo bacio con la pioggia che canta appena, in duetto per questa sera. E' in questo ridere di traverso, in questo amarti senza compenso, nel frammentarsi di cui il ghiaccio chiude catene vestite ai polsi, così alle scene; è nelle città conosciute a spizzichi, è in questa bellezza e disperazione che si fanno immagini e luna e fiele di un sentiero figurato in tele, in uno sguardo che sale e viene, ch'è solo e sparso. E' in quella speranza che non si dà pace, in quella tregua firmata coi denti, è in tutto questo che ti so simile, pure dove non mi somigli, anche quando ti volto le spalle e insieme ai gigli mi mimetizzo a valle delle tue baracche da riciclare. E lo sai fin troppo bene che sono lì e non me ne voglio andare. Ch'è proprio lì che mi puoi scoprire. 
(aprile 2012 - h.n.)


(La cosa più importante - Max Gazzé)