(Viaggi e miraggi - Francesco De Gregori)
Cerco l’uscita della spirale ciclica.
Sta tutto in un locale in penombra
dove ci sei senza esserci, lo capisci?
Nel tabacco di un ubriaco con
la cartina pronta all’orecchio. Nella polvere.
La mia illusione, così concreta da volerla realizzare.
Nella luce dei miei fari quando sbatto le ciglia
guardandomi intorno, specchiandomi in giro.
Dove sono, sono. Dove sono, sei.
Sai. D’assente.
Dunque colgo, raccolgo, le parole nelle strade;
eco della speranza di arrivarti,
tenerti, raggiunto tra le pagine,
trovarti, quando mi sfuggi.
Invece ecc’ostacoli.
E’ pretesa, pretesto.
E’ la mia repulsione
nel saltare giù dal palco
o pure l’entusiasmo, folle,
di riempirne uno ancora insieme.
Ore suppellettili
come la mia chitarra,
resa d’un vento complice.
Lo stesso che stropiccia,
svolta i fogli
svuotando i righi
di uno spartito
partito e sparito,
portatosi via le mie dita
quando dovrei chiamarti per nome.
Amo le stazioni:
sono per abbracci e addii;
avvicinarsi o andarsene.
Comunque muoversi.
E quando il treno giunge
cercare tra i binari.
L’alba che mi riporta ad Itaca
sarà tutta pioggia
e vuole un’ora e mezza
affinchè sia.
Siamo scesi dalla scala antincendio
riconsegnando la stanza
al buio restante.
I cani in cortile
piangevano la cascata
e ancora tuoni
a seminarsi per la collina intera
senza rovinarsi.
Per terza
ho oltrepassato il cancello.
Lui spingeva il passeggino divenuto capanna
di asciugamani rubati all’hotel,
appesi alla buona.
Stringevo nella mano
un ombrelluccio bucato.
Piedi a sparigliare schizzi
e odore di marcio agli occhi.
Squillò il telefono.
Al suo, tuo padre
mi avvertiva che ci avrebbe accompagnati
al capolinea.
La Panda volò:
sul tergicristallo si mescolarono
al clima bagnato
le scuse e i grazie.
Restò posto per risa
ed al mio
lasciai qualcosa per te.
Riempii l’abitacolo
di malinconia usa e getta
e risalendone
non avresti comunque subodorato niente.
In quel diluvio non sei arrivato
a conferire alla pioggia
la sua identità ambivalente
d’attrazione, fascino, eccitazione
e poi dolore: pianto o rimpianto.
Non sei accorso
correndo
all’occorrente baciarmi,
davanti tutto, nonostante tutti.
Lui non s’era dispiaciuto.
Tu eri andato
di chilometri distante
e la chimica la stavi studiando altrove.
Io, a casa tua,
nell’acqua non ti ho disegnato
e scrivendo ti cospargo oggi
di pensieri in briciole.
E allora, lo vedi, debbo raccontarlo:
l’autobus è partito.
Coi capelli umidi
e lo sguardo storto
ho scattato una fotografia
al finestrino.
Accanto, tu mi tieni la mano;
vesti addosso una smorfia che amo.
[Venere - Carmen Consoli]
h.n.
(Scritto
- la sera del 9 giugno al Pub Manhattan;
- la mattina del 9 luglio in auto verso Sant'Agata Bolognese;
e concluso il 22 luglio 2011 alle 21.22)
Note:
- sono presenti riferimenti ad una domanda fattami circa la mia sceneggiatura da una persona; al lavoro sul mito di Ulisse che sto portando avanti da mesi e ad una canzone inedita ascoltata recentemente in versione chitarra e voce; al ritorno alla mia seconda patria dell'aprile 2008
- il testo conta 416 parole (articoli e titolo compresi)
dopo tanti scrittipescati dal passato, finalmente qualcosa di nuovo.... oggi tra l'altro qui piove e il tuo scritto rende benissimo l'odore della pioggia
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