SPIRALE CICLICA

Si corre soli. Si corre come cani senza guinzaglio in strade di paesini senza padroni. Eroi per giorni che se ne sono andati come faremo noi con le museruole sciolte, ma senza accorgerci. Ci saremmo portati bottiglie di vino rosso e penne scariche se avessimo saputo. Un cast di attori più che di eroi.

sabato 5 novembre 2011

(Le cose che mi restano - Parto delle nuvole pesanti)

1946 
Un bar di notte. Un pc acceso su iniziale tavolo (poi diventerà un giardino fiorato… teatro e funerale d’una storia di naufragio). Traffico. D’anima e corpi estranei. 

Traffico di menti immobili, sceneggiate dai denti avidi. Ridivido i petali come l’ultima volta. Raccoglievo tra due dita ogni consistenza dal profumo fruttato nel vasetto di roselline sul mio tavolo: non si intravedono spine. Sui rametti verdi restavano inermi quei finti germogli. Non avevo più paura di fare del male a qualcuno e tu neanche, da quando accavallavo le gambe sugli sgabelli bassi del locale in cui ancora stai lavorando. 
Oggi non ho voglia di raccogliere anche le briciole degli sguardi che mi getti da fuori gli occhiali, distratti, sfrattati da altre facce che qui non ci sono, medaglie appuntate non si sa se su fogli di carte o di pixel soltanto. Ti scivolano appena abbassi lo sguardo, appena raggiungi la mia stravagante concentrazione basata sempre su punti di contatto diversi, con te. E col MeanTea. 
Faremo notte ed io aspetterò che finisci il turno per trovare una di quelle scuse banali con cui sorprendere la tua serata e costruirne mia traduzione che tradizioni le tue abitudini e m’inserisca nella tua vita oltrechè nel tuo bar. 
D’accordo, non è una metropoli del sud e che siamo d’accordo l’ho deciso io soltanto. Non è neanche New Orleans, pure quando qualche volta il cielo lo immaginerei uguale. 
Stai a un bivio. 
Io tra 48 ore volerò via e, prima, voglio indietro il mio pensiero e la capacità di fare a meno di costruirti nei miei disegni matti. 
Io chi sono? Bimba che sbuffa, sbruffa, droga, pesa, s’esoterica il MeanTea per scrivere ciò ch’è la sua vita di fatto. E’ fatto. 
E prosa. 

- La conoscevo. 
Mi ha chiamato, sono passati due anni dall’ultima volta che l’ho sentita. E si rifà viva così?! Neanche un fottuto ciao. 
Soltanto: 
- Ehi, sono io. 
Avrei riconosciuto quella voce anche dopo mille anni, figuriamoci lì. 
Sono qui in città, possiamo vederci? 
- Ma chi cazzo frequenti? 
- Non ti riguarda 
- Ora sì 
- Mi aiuti? 
- Non credo di poter far molto 
- Questo lo decido io. 

Era fragile. 

Senza che te ne accorgessi stavi componendo un numero. Artista, in un modo o nell’altro. Da autista tu invece non eri nato, ma ti assicuro: accompagnarla t’avrebbe appagato. O l’avresti pagato. 

Vedi le mie dita muoversi sicure sulla tastiera, mentre telefoni sparecchiando i tavolini: il mio no. 
Poi il bip prolungato dello squillo con lo sguardo fisso su quel muro sfregiato con cifre che compongono la chiave per comunicare con cellulari appartenenti a persone diverse… ognuna un nome impresso, con punte di pennarelli colorati, sul muro del tuo bar. Non so se anche nella tua testa. Intanto ho poggiato le chiavi sul legno, accanto ai fiori e ai tovaglioli bianchi ripiegati dentro il contenitore con su una marca e una tinta pastello, verde. 
Nomi di puttane dalle funamboliche qualità e incomprensibili geroglifici urbani. 

- Pronto? 
Ne hai richiamata una. 
La tua voce somigliava ad una scialuppa di salvataggio, Ric, venuta a recuperare ciò che resta del tuo corpo alla deriva. 
Chi è? Per un attimo ho creduto non ti rispondesse nemmeno. L’ho sperato, hai ragione a ipotizzarlo. Poi ti ho sentito, nitido. Udivo la tua voce dire: 
Sono io 
E’ seguito un silenzio…. Più muto di un mimo dentro un feretro il giorno del suo funerale. Poi la sua parlata è riemersa, questa volta era diversa. 
- Cosa c’è? 
L’ho sentita persino io. 
E non era in viva voce. 
- Han telefonato i carabinieri, vogliono chiudere il bar. Sembra che qualche mafia l’abbia preso di mira, insomma rischio il botto. 


(Pearl Jam - State of love and trust)

Pensavo alle mattonelle grigie e ai ri-quadri rossi mentre è squillato il mio. Pensavo che non avevamo paura, ma era incertezza mista ed un bisogno di sentire se stessi senza potersi chiamare. 

- Sylvia? 
- Sì, ciao…. Dimmi 
- Ma Jean è con te? 
- No, Nadine, ci siamo lasciati un mese fa. 
- Oh, scusa, mi spiace, cercavo lo zio per… 
- Nadi, non mi hai mai potuta soffrire e ora non dovrai più manifestare cordialità sfrontata quasi come il tuo trucco sciolto su di una maschera cruda, che non dice niente, sii solo contenta di non trovare lo zio per. 

Clic. Riappesi sul ‘per’ come avevo fatto nell’interrompere la sua ipocrisia con un atto di coraggio, d’onestà, di sberleffo. Tu non conosci certo questo mio lato visto che raccogli le tazze su un vassoio a fiori, picchiettando sempre le dita sul tuo grembiule nero in maniera diversa ad ogni bicchiere che prendi in mano, ma guardandomi sempre dalla stessa prospettiva e con quell’espressione incazzosa che non ti togli quasi mai di faccia. Tranne quando mi saluti. 
Comunque consapevole che adesso tu sai che sono libera ed io sono conscia di quanto tu sia incasinato sentimentalmente. 

Un giardino e quadri appesi a mattonelle grigie. I fiori sui tavolini danno idea di un ristorante in cui i soliti non sarebbero entrati. Invece no. 
Un soffio, per determinare un’onda (un’ombra) e il pullman sarebbe arrivato dentro al flusso di auto intanto che tu, intento a non far cadere i vetri, apparecchiavi ed io stavo a bere il mio MeanTea. 
Attendevo l’ora di chiusura ogni sera, arrivando verso le 19.45. Si sarebbe ritardato anche oggi perché Pavese nel mio mondo lo leggono in troppi. 
Le note sembrano cadermi addosso seguendo la cruenta e inevitabile malinconia di un blues che risuona nel locale. Come i miei pensieri che, a stento, valicano le palpebre quasi chiuse. 
[E’ l’ora della nanna, stella. Andiamo? 
Perché proprio ora riaffiorava quel ricordo? Quella voce? Fottuta mente. Fatata, mente. Fottuta menta. 
Non sono più una ragazzina. Vado a letto quando mi pare, risposi a quella voce che non voleva uscirmi dalle vesti. 
Resti? 
Non poteva continuare così. Prima o poi qualche cinghia di trasmissione letale avrebbe ceduto o m’avrebbe punita. Non volevo e non potevo pensare a cosa sarebbe accaduto se… 
Senza che me ne rendessi conto stavo con uno dei petali staccati tra le mani. Sarebbe bastato riattaccare con il pretesto del traffico, ma gli incroci di sguardi e gli incastri di vite sono pezzi di puzzle che ridipingi di sfumature diverse e appena ti accorgi che sei dentro al disegno rimani spiazzato all’idea di doverti guardare allo specchio per trovare come porre l’ultimo pezzo. E la mano è d’un altro d’un tratto, di penna… libertà o memorie, ancora non si capisce. 
Sembrerebbe più giusto lasciarsi aiutare, costruire, gustare il principio di qualcosa di matto come un’unione o comunione, d’assoluzione soltanto, di soluzione io tratto. 

-  M’hai raccontato d’un posto qui vicino dove si beve un buon vino – d’incanto mi hai detto. 
Ero abituata a cercare io un contesto, ma il vino è perfetto. Te l’avrei pure letto, ma scrivevo di un sasso su un lago e non t’ho dato spago. Scrivevo, sfogliavo: petali, più liberi di leggersi di un libro. Più decretanti un destino fortuito, di uno schema gratuito su pagine di cartapesta che accartoccio quando sbaglio o non mi piace, per costruire nidi di rondini e spighe. 

Le mie ciglia accarezzavano l’aria lasciando ad ogni battito colori diversi su quei ricordi che si ostinavano a non lasciare la scena. Patetismi a buon mercato se ne trovano sempre, volendo.
Dovevo alzarmi e lasciarli lì, da soli. Ma, poi, cosa ne sarebbe stato? Fissai l’entrata. Uscire?
Concentrandomi su di te, sono rimasta seduta. Adesso entrerà qualcuno e sarà tutto finito, continuavo a ripetermi mentre il passato continuava il suo spettacolo, consumato attore qual era. 

Forse non arriverà. Forse questo bicchiere vuoto resterà solo. Solo come me, ed io fragile come lei, una interprete qualsiasi nelle mie giornate tutte ugualmente mal spese. 
In questi ultimi mesi… è ritornata a leggere lo stesso racconto di Pavese nel mio bar, ogni sera, quasi commossa dal significato di ciò che leggeva. 

Non mi capitava mai. Non è che non piovesse a Roma, è che dopo due gocce viaggiano altre auto, dopo ogni bicchiere in attesa al davanzale, non c’è lui a riempirmelo di nuovo, né a portarlo via picchiettando le dita a ritmo di blues sul nero di un qualsivoglia vestito. O tempo. O pelle. Non c’è neanche sempre uno di quegli incontri di sesso da aspettare. Una delle sue prostitute in prestito d’alto borgo che ora si rifiuta di viverlo così e preferisce andarselo a prendere: il destino. 


(Mimmo Locasciulli - Alice è felice)


Mi hai detto di quel vino e avevo pronto il calice, ho festeggiato il salto del fosso, ma sul lago non siamo mai ancora arrivati perché questo bar, questa professione, questo aeroporto, lasciano te e me di sasso: tu nel dormire ed io nel guardarti e nello sbigottimento. Il sasso, invece, nel fosso o in fondo al lago.

I miei pensieri cadevano a terra come l’intonaco secco delle pareti insieme alla fotografia di un cane a passeggio di passaggio che sarebbe stata china su carta se fosse stata dipinta ed era sfumata di rosso, scivolata al pavimento grigio. Scheggia ingiallita ed inutili immodestie. Sapevo da tempo che le mostre d’arte nella sala da tea erano composte dei tuoi disegni.

- Cameriere? Il conto.

Ma non avrei permesso a quei pensieri di decidere della tua vita. Tu eri un altro o almeno io ero stata la prima assetata d’una serata d’estate. Nient’altro. Qualcosa dentro di te doveva pur essere rimasto. Se era così bastava risvegliarlo. Un tea zuccherato non m’era mica bastato.
I miei occhi non guardavano il locale, ma il mio passato (sono andata a cena). Mi serviva un’arma per farlo fuori, farmi fuori, azzerare la memoria dell’ennesima sera in cui la compagnia è stata soltanto quella dei tuoi occhi nella tua stanza da lavoro. Beh, quel vino invecchierà ancora un po’, sarà forse poi più buono, lo so.
Ma che triste serata, che affronto, che conto. Senza carta per farmi tutti i calcoli a mano.

- Mi eccita pensare di realizzare i miei racconti, mi sembra di seguirti, ma mai di recitare.
- Che altro posso dire?
- Ciao? – l’ho pensato, solo pensato.
Non hai capito, m’hai spiato d’un lato, ti credevo spogliato di congetture e paure, ma ti sei defilato e ci sono rimasta un po’ male. Non credere.
- M’avresti consigliato altro solo qualche tempo fa – continui tu.
Non immagini. No, non immagini. Le immagini sono ferme, ma almeno sempre uguali. Tu cambi come io cambio colore a grembiule e mattonelle in uno dei miei scritti, tu impazzisci sotto contratto d’apprendistato, tu non vedi questo posto, questo volto, un certo incontro, come fatato. E’ tutto fottuto, dannato, ma sei tu che sei bendato. Non immagini.

- A cosa stai pensando: al passato? Al futuro? Al creato? Hai un’espressione….
- …assopita. Non dormo da un paio di settimane quasi.

Non ho risposto altro alle tue fasi di circostanza sbagliate, ridicole, spietate col fucile spianato e caricato ad indifferenza e lacune dopo ogni sera in cui facevo i conti con quel puzzle sulle cui fessure scrivevo l’amore per te e tutti sapevano che quella tua era stata una frase del cazzo.

In tutta risposta ho preso la bottiglietta d’acqua che mi hai accompagnato stasera al solito MeanTea ed ho bevuto come fosse il vino che non m’avevi offerto nel tuo primo approccio. Ho pensato:
(Dream Theater - The mirror)
“ecco, adesso sappi che potrai baciarmi giusto così, quando dietro la tenda, girando dall’altra parte del bancone, scoprirai che le carte parlavano di me come artefice di vittoria e ti riterrai cretino mentre t’attaccherai ad una bocca a caso e sceglierai la mia d’istinto. E’ scritto. Ed è mia la penna come la picca intinta nel fango insanguinato di questo superficiale dolore rappreso nel sudore d’averti che non è tutt’ora definito".
Vivere nel tratto di tempo di un drink e rendermi eterna: una canzone che ti piace.

C’era un bicchiere, ho usato la bocca. C’era lo sgabello, ho scritto con le sue gambe su quadri rossi e mattonelle sempre grigie. Non ancora coinvolti nel fuoco d’una minaccia.
Mi osservi troppo, ma io, dimentichi, guardo per storto. Ti spengo quando voglio, come musica per organi scaldati al microonde, in casa, in una cena veloce e un po’ rassegnata.
L’unica consolazione è la luce dell’usb che lampeggia come casa addobbata a festa per sentirsi in famiglia. O come segnali di necessaria attenzione in autostrada notturna, nel bar. Tu hai telefonato, io odio ripetermi quando non ha senso.
Glielo hai dato tu. Avete distrutto il mio ignoto senza darvi importanza e manco conoscere il mio racconto, il pezzo di mente deviato che ha tradotto in note quel giardino incantato fatto di piccoli vasetti di fiori finti, roselline, ce n’erano pure di bianche insieme ad una nuova, pura, metropolitan leggend per la mia vita ed a un po’ d’inchiostro buttato, un danno mancato. Una serata qualunque in una sala da MeanTea senza manco renderla indifferente, come sei tu quando mi guardi, evidentemente.

Non capirai queste righe, non sarà una lettera solo, nemmanco calligrafia. Ti lascerò un indirizzo, ma sarà solo il mio, se lo vorrai. Vizio d’artista essere incompresi nel prezzo delle proprie menti. E senza bluff per cuori e picche mischiati a casaccio, ma entrambi nel sacco che calcio con una caviglia nuda. La sintonia vedi che la si trova? Non saprai mai cosa penso realmente, di noi vedrai solo che dopo la caduta dei fiori non ho detto più niente. Io ridevo al loro 'a dio', tu raccoglievi la fotografia del cane ed era venuta male.
Tu disegni prati di una campagna dove non sono stata: lo abbassi tu il volume di questa serata. Alla fine t’è costata una bottiglia. Cosa ordini?


Sono d'argento e rigoroso. Non ho preconcetti. 
Quello che vedo lo ingoio all'istante 
così com'è, non velato da amore o da avversione. 
Non sono crudele, sono solo veritiero - 
l'occhio di un piccolo dio, quadrangolare. 
Ora sono un lago. Una donna si china su di me, 
cercando nella mia distesa ciò che essa è veramente. 
Poi si volge alle candele o alla luna, quelle bugiarde. 
Vedo la sua schiena e la rifletto fedelmente. 
Lei mi ricompensa con lacrime e un agitare di mani. 
Sono importante per lei. Va e viene. 

Sylvia P. 


[ore 00.52] 
h. and s.

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