SPIRALE CICLICA

Si corre soli. Si corre come cani senza guinzaglio in strade di paesini senza padroni. Eroi per giorni che se ne sono andati come faremo noi con le museruole sciolte, ma senza accorgerci. Ci saremmo portati bottiglie di vino rosso e penne scariche se avessimo saputo. Un cast di attori più che di eroi.

martedì 15 dicembre 2009

come bambini

radiohead - i will

Poteva essere di pomeriggio come di sera. Raramente, mi vien da credere, potrebbe essere stato di mattina perchè ci andavo che mio padre aveva finito di lavorare... allora collaborava ancora con loro a livello professionale....e d'altra parte ci mettevo piede quasi esclusivamente nel weekend, da che ricordi.
era la ditta di galvanica dei miei nonni di cui mio padre era allora ancora socio. Là, invece, era casa loro.

Se fossimo in un film a questo punto restringerei la prospettiva delle inquadrature fatte e mostrerei uno, forse il primo, di quei panorami di verde orizzonte che si mischia nel cielo di cui ho imparato ad innamorarmi nel corso del tempo e degli sguardi distribuiti qua e là nella mia vita.
Ebbene, non c'erano solo grandi prati e "la Ditta", ma pure quei rovi di more ispidi di cui ho già scritto in qualche mio racconto e soprattutto quel naturale e selvaggio benessere che ti dà l'entusiasmo verso qualcosa che da bimbo ritieni 'nuovo' e questo pure quando lo ripeti abitudinariamente ogni giorno come noi, con mamma, quando andavamo a prendere papà all'uscita dal lavoro e reincontravamo i miei nonni.

Non credo trascorressimo poi tanto tempo lì, ma poteva capitare che lui dovesse finire la preparazione dei materiali dell'ordine urgente di qualche cliente o portare a termine qualche 'bagno' negli acidi facendo girare dentro vasche di liquidi colorati, che ci dicevano essere molto pericolosi, rulli pieni di pezzi di metallo che non ho mai capito a che servissero. E noi giocavamo a seguire passo-passo questa enorme catena di montaggio meccanica.
Restringiamo ancora.

Quando dico e ripeto 'noi' mi riferisco a me ed ai miei fratelli e talvolta cugini.
Quando dico 'nonni' intendo due persone che hanno (se tutt'ora in vita) poco più d'una ventina d'anni a testa in più dei miei genitori, d'origine sicula entrambi e mamma e papà, come già detto, di mio padre.
Restringendo ancora.

La signora la si riconosce pensando ad una classica donna del sud-Italia, le proprie radici le si scovano guardandola in faccia e cercandone rughe, pure se trasferitasi al nord per seguire con i figli il marito in una di quelle famiglie in cui si fatica a distinguere il capofamiglia poiché la sua figura cambia in base alle funzioni di cui si tratti. Ci preparava panini con olio, origano e rosmarino e la prima volta che noi con voce imbarazzata cercammo di farle notare che s'era dimenticata il contenuto dentr'al pane, abituati com'eravamo alle merende degli asili di città, lei si mise a ridere e ci raccontò la storia della 'ricetta' di una delle due patrie nostre. Assaggiare quel pane con un nuovo banale sapore, mi rimase sapore in bocca per tutta la vita: il gusto delle lezioni.
Per tratteggiarne la figura potrebbero essere bastate queste poche gocce di colore, ma aggiungerò pure di quando intorno al tavolo rotondo della Ditta ci radunava noi nipoti e con al centro grandi bacinelle piene di fagiolini freschi, gli toglievamo le punte o ci impegnavamo a sgranare i fagioli dal baccello contenti di avere trovato un passatempo occasione di gioco e dei racconti di nonna e di esserle utili per preparare il pasto intanto che lei era impegnata ai fornelli da cui salivano fumi e profumi di pietanze preparate sempre troppo abbondanti e piene di passione.

Dirò, contraddicendomi un poco, che alcune volte quel 'pasto' era il pranzo. Alcune volte, in effetti, qualcuno di noi rimaneva in Ditta con papà l'intera giornata anziché andare a giocare nel mitico 'retro' dell'ufficio di mamma, una foto-copisteria direzionata negli anni in un laboratorio grafico. Suppongo quelli di cui ricordo fossero i periodi di vacanza estiva dalle scuole, più che altro.

even flow - pearl jam
Il signore pareva essere stato una specie di bell'imbusto di famiglia considerata ricca in Sicilia perché proprietaria di uno spaccio. Per sì e per no le ragazzine di Pachino gli correvano dietro ed una di esse fu ricambiata e divenne così mia nonna. Mio papà, secondo di quattro fratelli, nacque in quel di Noto poiché l'ospedale più vicino era in provincia di Siracusa.

Il signore, da raccontare avrebbe potuto averne parecchio. Per esempio di quel viaggio dal meridione per tutta Italia, da solo, con l'illusione di un lavoro facile con cui sfamare la famiglia e della difficoltà di quella ricerca per un siciliano ai tempi di un Piemonte ancora 'vecchio' per corrispondere a pieno quelle speranze.
Oppure delle svariate professioni in cui s'era improvvisato nell'arco della sua età. O di quella manciata di giorni trascorsi in carcere, condanna di un errore non suo ma di un ladro che aveva rubato dalla sua demolizione la targa d'un auto per poi attaccarla ad un'altra macchina, rubata, e commettervi forse una rapina.
Invece non parlava poi molto.

Avrebbe pure potuto dire di più sulle storie degli animali sempre amati e di cui si era sempre voluto circondare. La Ditta non dava come lavoro il solo traffico di macchinari che tiravano su e giù e facevano roteare rulli pieni di pezzi di ferro perché, a parte i gatti che gironzolavano ovunque, nel cortile adibito a spazio per i cani e a serra per le piante, lui aveva pure costruito una casetta a mò di capanno. Lì si trovavano capre, tacchini, galline e conigli. Dunque l'impegno era pure di raccogliere le uova la mattina, per esempio e dare di che sostenersi a tutti gli animali. Una volta, per quanto ricordi, una capra finì pure in pentola.

Io provavo attrazione e repulsione all'idea di entrare in quella casetta perché mi facevano paura i tacchini che iniziavano subito a svolazzare arrabbiati o forse impauriti essi stessi. Qualche giorno avevo pure dovuto prendere via di fuga dal cancelletto laterale perché la capra più grande era uscita dalla sua 'stanza', come faceva sempre quando sentiva rumore forse convinta che ad ogni sbattere di porta corrispondesse l'arrivo di un po' di cibo. Mio nonno spostava il caprone accompagnandone il passo nell''area' prevista per lui nel capanno, ma io, bambina poco più alta delle sue corna, davanti alla sua stazza ed ai suoi versi, me ne guardavo bene.

Mi piaceva star lì, al lavoro di papà, con gli animali, i prati immensi, le more tra i rovi e le biciclette impolverate e mezzo scassate su cui a turno tutti noi nipoti ci eravamo sbucciati gomiti e ginocchia (mio fratello si era comportato una cicatrice profonda che ha ancora) imparando a pedalare.

Mi piaceva pure andare la domenica a mangiare a casa dei nonni che comunque vedevamo meno di quelli materni (ma sempre più spesso che negli anni successivi in cui, finché li frequentammo, fu raramente). Quella casa, piena di oggetti e con quel grande acquario in cui se giravi l'angolo, cambiando lato da cui osservare, cambiava anche la prospettiva ed i pesci sembravano ingigantirsi mentre li seguivi nei loro movimenti. E sopra l'acquario, il quadro di un bambino.

Nella grande sala c'era un tavolino di vetro trasparente con le gambe dorate. Era sistemato davanti ad un divano-letto e due poltrone. Su una delle due stava sempre seduto mio nonno davanti ad una televisione che qualche volta era a volume così basso che teneva compagnia giusto guardarne le immagini. Lui si alzava solo per venire a tavola e se volevi sperare di scambiare quattro parole con lui all'infuori dell'orario di cena, cascasse il mondo, dovevi essere tu ad andare a prendere posto nel salotto con lui.
I miei fratelli ed io sotto quel tavolino ci infilavamo rotolando sul grande tappeto intenti a mangiare le caramelle che prendevamo da una scodella appoggiata lì sopra che aveva la forma di un dado a tante facce ed era tutta rossa.
Ogni volta, ci si poteva giurare, eravamo o lì o davanti l'acquario o a giocare nella camera del nostro zio più giovane, il quale non c'era mai perché nel week-end, ci si diceva, era sempre a Milano da amici che per nostra malizia credevamo consistere in una fidanzata e che scoprimmo più avanti negli anni essere 'un' fidanzato.

La grande sala, che sembrava una foresta talmente era ricolma di grandi piante, era anche teatro di cenoni e veglioni delle festività natalizie e di fine anno.
Vi era pure una piccola scimmia che, ci raccontarono, prima di morire ed essere imbalsamata era stata compagna di famiglia e mia nonna ogni tanto l'aveva pure vestita di piccoli abiti che lei si strappava puntualmente di dosso. Una volta aveva morso un dito a mio padre bambino.
Fatto sta che quella scimmia lì imbalsamata nel suo trespolo con la bocca aperta e quei dentini in vista, a me non aveva mai invitato tante carezze come invece facevano spesso gli altri miei fratelli e cugini, mentre ridevano di lei.

Ma quel salotto col tavolino basso, il pollaio, quei rovi di more, ispidi e quei prati in cui andavamo a giocare a palla o a guardare il deltaplano planare, non li avevo solo amati.
Sono stati pezzi di vita vissuti in maniera piena, direi quasi totalizzante, cornici attorno a momenti in cui ti ritrovi dentro senza nemmeno sapere di esserci e come, come penso potrebbe descriverli chiunque abbia subito molestie.

L'erba era alta abbastanza da coprire ben oltre le ginocchia di una bambina di quell'età e questo rendeva più facile tutto, pure con terze persone a pochi metri.
D'altra parte se dal raccogliere more si fosse tornati senza averne una sola con sé, nessuno si sarebbe stupito perché chiunque di noi bambini vi si avventurasse, da solo o in gruppo, era capace di tornarne che l'unico modo per rendersi conto che era stato intricato in mezzo ai rovi poteva essere al limite quello di scorgere qualche graffio in quanto le more le aveva mangiate tutte strada facendo e questo nonostante gli adulti tutti ci dicessero che sarebbe stato preferibile lavarle anziché pulirle solo un po' con le mani. Dunque le mezz'ore tra i cespugli da cui tornare senza more erano comunque giustificate.
Per chiudere la porta del pollaio c'era pure un lucchetto e si poteva essere più sicuri che pure se qualcuno si fosse presentato con l'intento d'entrarvi in orari un po' insoliti si poteva dare facilmente la colpa al caprone come avesse bloccato l'ingresso e si aveva tutto il tempo di rimettere a posto i vestiti. Ad ogni modo non c'era granché di cui preoccuparsi immersi com'erano tutti nel proprio lavoro.
Quando entravamo in casa dei nonni paterni, usualmente la domenica, la nonna era in cucina affaccendata a preparare da mangiare ed era normale che le chiacchiere per cui non si trovava tempo e calma di intrattenersi troppo durante la settimana trovassero invece situazione comoda, tranquillità e dunque sfogo in quei momenti di pausa dai giorni lavorativi.

Ci toglievamo le giacche e posavamo le borse in entrata appendendole ai bracci dell'attaccapanni e salutavamo la nonna che tagliuzzava sempre verdure e a quel punto buttava la pasta nell'acqua della pentola che bolliva probabilmente da un po'. Lei, inconsapevole, ci diceva sempre di andare a salutare nostro nonno che era come al solito in sala.
In sala, la poltrona dava le spalle alla porta d'entrata della stanza e la luce era sempre inequivocabilmente spenta perché avrebbe dovuto favorire forse la visione della televisione e più che altro aiutava gli altri che avessero dovuto entrare d'improvviso nella stanza a non vedere e non rendersi conto di che succedeva dando il tempo a lui, ancora una volta, di rimettere a posto mani e vestiti e fare come se nulla fosse accaduto.
Si poteva trovare normale pure se ci si fosse accorti che qualcuno dei nipoti tornava più tardi del tempo d'un saluto al nonno senza sentir provenire voci dalla stanza, essendoci la tv accesa.

Ciò che non so come potesse essere altrettanto 'normale' era come potessi pure io fare come se nulla fosse "dopo", come non mi fosse venuto spontaneo andare subito a dire quanto subivo ai miei genitori con i quali non avevo mai avuto certo fino ad allora e per molti anni ancora alcun problema nei rapporti e con i quali non avrei già allora avuto sicuramente grande reticenza o paura a parlare. Tant'è, che quando venni a sapere da un'altra vittima delle stesse molestie di mio nonno che non ero la sola coinvolta, lo feci immediatamente di bocca mia ed ovviamente proprio con loro.
Certo non mi piaceva, sapevo che c'era qualcosa che non girava nel modo giusto in quei momenti e forse non capivo come scrollarmi da quel che le circostanze tendevano a rendere invece così dannatamente in apparenza possibile, 'normale'. Mi dava fastidio, lo sapevo essere sbagliato, volevo sempre scapparne. Ma lui, più forte evidentemente di me, non faticava a trattenermi e costringermi a movimenti che non volevo. E io non chiamavo aiuto. Non mi veniva in mente.

Mamma, appena venutane poi a conoscenza, in quella casa stessa per brevi frasi all'orecchio, si prese subito a cuore la situazione insieme a papà come d'altronde non avevo dubbi avrebbero fatto e con la sensibilità attenta di cui la so portatrice non mi bastò che quel gesto e poche parole al suo orecchio per far finire tutto quel brutto film che film non è mai e poterne parlare senza farne taboo con me stessa e non rimanerne neanche perdutamente bruciata nell'animo turbato da un trauma. A casa, successivamente, ne parlammo meglio.

Lui iniziava scherzando, credendo forse di farmelo passare come un gioco come comunque non sono riuscita a viverlo neanche per un attimo. Non diventava diverso da quello di sempre, non si trasformava nemmeno nel personaggio cattivo d'un fumetto eppure sapevo che non c'era niente di buono e di giusto nel mettermi le mani addosso contro la mia volontà e trattenermi con forza laddove, appena capito il suo intento, me ne cercavo di sottrarre. Una bambina non la devi per forza picchiare, basta poco a non farla scappare per un uomo con ovvia forza nettamente maggiore.
Non so come ne potesse trarre un qualche piacere né avevo età per poter capire più nel profondo a cosa volesse arrivare. Nemmeno oggi so dire cosa spinga un uomo a provare attrattiva verso dei bambini. Conosco solo, di quei suoi momenti, una mano che obbligava pure la mia, lembi di pelle e di carne che il tatto infastidito di bambina poteva allora associare a carne cruda d'animale soltanto, ridicolamente. Conosco gli scoppi di sue risatine nervose appena cercavo di scapparne perché volevo andare altrove, a giocare, e pensavo che quello dovessi fare, l'impedirmelo intanto, i vestiti alzati o calati, rimessi a posto in fretta da lui stesso se capitava un imprevisto come una voce vicina e qualcuno in arrivo oppure riordinati da me alla bene meglio se riuscivo a trarmi fuori dalle sue grinfie e me ne correvo subito in presenza di terze persone, istintivamente.
Conosco quel giorno: la rabbia della mia voce e l'incredulità negli occhi di mia madre che non mise mai in dubbio quanto le confidai ed il suo rimanere allibita e incazzata pur senza farmene vivere una scenata pubblica in cui ritrovarmi protagonista quando non potevo esserne in grado senza sottopormi ad inevitabili conseguenze psicologiche ancora una volta pesanti dopo quelle che pure veniva a vivere lei, come madre, nello scoprire che sua figlia aveva fin ad allora già dovuto vivere quel tipo di situazioni a cui io ero in effetti fin a quel momento stata soggetta.
Ricordo la faccia tirata di un padre che viene a scoprire che suo padre usa mettere le mani addosso a sua figlia e la capacità di evitare di metterle lui addosso ad egli.
Ricordo anche che intervennero facendo in modo che non ci fossero mai più occasioni di rimanere sola con lui, anche per pochi minuti, ma che non affrontarono il fatto altrimenti.

Oggi, a 25 anni, io so che lo avrei denunciato a prescindere da qualsiasi altra cosa.
Fu debolezza la mia nel non dirlo o capirlo subito, nel non chiedere un procedimento di quel genere?
Fu debolezza quella dei miei genitori nello scegliere una via diversa motivandomene le ragioni?
Sarebbe stata debolezza effettivamente troppo forte quella di mia nonna, la quale non ultima a colpi di scena nella propria vita, di questo ne avrebbe troppo definitivamente patito, come sostenevano loro a giustificazione della scelta di non procedere in altro modo?
Debolezza grave, insopportabile e che mai giustificherò sicuramente è quella di un signore che sceglie di molestare sessualmente una bambina.
Dimostrazione di forza quella di scegliere di andare avanti, io, senza odio, senza far rimanere la mia vita incollata a quel dramma, a quello schifo che in alcuni attimi l'aveva coinvolta. Forza fu quella dei miei di fare altrettanto. Forza si può dire in qualche modo quella che ci mise lui nel non ripetersi più, pure aiutato dal non averne facilmente la possibilità grazie all'attenzione dei miei e comunque consapevole che forse un'altra volta non sarebbe passata.

Il messaggio che forse ho scelto di mettere dentro ogni mia parola è qualcosa che non è una condanna, quella se la diede dal solo nel gesto, ma una voglia di denuncia di quelle che sono mancate ai miei, ma che devono venir fuori sempre, in un modo o nell'altro, in situazioni pure difficili e ambigue che succede che si vivano e che sono sbagliate.

il pettirosso - gino paoli

4 commenti:

  1. Come sono frequenti queste cose. Tanto più frequenti di quel che si crede. E come raramente se ne viene a conoscenza.

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  2. forse non ha continuato con te ma tanta attenzione dei tuoi genitori non c'è stata verso altre vittime di tutto ciò e infatti la cosa è continuata ancora molto a lungo e quella persona non ha avuto nessuna forza nel non continuare... ha semplicemente rivolto le sue attenzioni solamente verso qualcun altro.

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    1. A un anonimo non dovrei nemmeno rispondere, comunque parli come qualcuno che non sa o non ricorda un bel niente. E in entrambi i casi sproloquiare, in pubblico, è cosa che è meglio evitare in un contesto del genere.

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